Tra gli italiani che vivono o lavorano in Cisgiordania, Nidal Salameh è una figura popolare. Dopo essersi laureato nel nostro paese, dove conserva tanti amici, il medico palestinese per conto della ong Al Sadaqah anni fa ha aperto un «poliambulatorio popolare» a Betlemme. Assieme ai suoi colleghi garantisce visite mediche specialistiche e terapie avanzate a costi bassi a coloro, e sono tanti in Cisgiordania, che non possono permettersi cure private. Due giorni fa il dottor Salameh ha sepolto la madre 77enne morta di Covid. «Se ne è andata in pochi giorni, ho fatto di tutto per tenerla in vita ma il virus si è dimostrato più forte di lei» ci racconta. Il medico ha provato a curare la madre a casa, con l’aiuto di un respiratore in suo possesso. «È stata una scelta obbligata – ci spiega – all’ospedale di Beit Jala, al quale facciamo riferimento, non c’è più posto, traboccano di ammalati Covid. Fanno di tutto per assistere e curare i pazienti ma non riescono a seguire così tante persone. Ed è lo stesso in tutti gli altri ospedali e centri che il ministero della sanità ha attrezzato per il Covid. Viviamo il momento più difficile dall’inizio della pandemia un anno fa, la situazione è drammatica».

La nuova ondata del coronavirus sta avendo conseguenze che potrebbero rivelarsi una catastrofe per il fragile sistema sanitario palestinese nei Territori occupati. I numeri del contagio sono in rapido aumento. «Nelle ultime 24 ore abbiamo avuto altri 25 morti e 2.298 casi positivi. Sabato i positivi erano stati quasi 1600 su appena 6000 tamponi e 27 i decessi» riferisce la ministra della salute Mai al Kaila. I livelli più alti del contagio si registrano nell’area di Ramallah/Al Bireh e a Betlemme. «Negli ospedali» prosegue la ministra «ci sono 181 pazienti in terapia intensiva, di cui 53 collegati a respiratori artificiali. Siamo in emergenza e il personale sanitario è sottoposto a turni massacranti».

Queste cifre contenute non devono ingannare chi in Italia ogni giorno ascolta i numeri drammatici della pandemia nel nostro paese. La bassa mortalità in Cisgiordania e Gaza è dovuta alla giovane età della popolazione palestinese, ma non tutti i decessi per il Covid vengano dichiarati dalle famiglie e così anche gli ammalati. Chi si scopre contagiato in molti casi resta a casa sperando di guarire senza aiuto di fronte alla situazione negli ospedali. Le terapie intensive disponibili per i casi Covid in Cisgiordania e Gaza sono 250 per una popolazione di oltre cinque milioni. Un altro centinaio di posti di rianimazione è destinato ad altre patologie. E ora il ministero della sanità palestinese deve combattere anche la psicosi della mancanza di ossigeno che si è diffusa dopo che nella confinante Giordania almeno sei pazienti erano deceduti nell’ospedale di Salt privo di bombole piene.

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Domenica le strade della Cisgiordania erano affollate e trafficate nonostante la diffusione contagio. Le famiglie hanno fatto provvista prima del lockdown totale di cinque giorni iniziato ieri – destinato con ogni probabilità ad essere allungato – decretato dal governo del premier Mohammed Shttayeh. Che il virus faccia più paura si nota dal marcato aumento delle persone che in strada portano la mascherina: una precauzione che sino a qualche settimana fa era rispettata solo da una minoranza. D’altronde non ci sono altri modi per proteggersi, i vaccini non ci sono. L’Anp a Ramallah e il governo di Hamas a Gaza hanno ricevuto solo poche migliaia di dosi sufficienti a vaccinare solo parte del personale sanitario (e, pare, alcuni importanti dirigenti politici).

foto di Michele Giorgio

Vaccini che non mancano sul lato occidentale della linea verde dove oltre cinque dei nove milioni israeliani hanno ricevuto la prima dose e quasi quattro anche la seconda. Gli esiti della campagna vaccinale sono molto promettenti in Israele. La mortalità è drasticamente calata, il tasso di positività al virus ieri era del 2,4% e il coefficiente di contagio è sceso allo 0,76. Numeri che dovrebbero indurre Israele a inviare subito le sue dosi in eccesso alla popolazione palestinese, sotto la sua occupazione militare. Ma il governo Netanyahu, malgrado le sollecitazioni che arrivano da più parti, non è andato oltre una simbolica donazione di poche migliaia di fiale.