È passato senza nessuna svolta il terzo giorno di parziale shut down del governo americano. E il pensiero, specie tra gli economisti, corre già a una scadenza ancora più cruciale, e cioè quella dell’approvazione da parte del Congresso ad alzare il tetto del debito. È nei confronti di quella deadline, prevista il diciassette ottobre prossimo, che ha pubblicamente manifestato apprensione Christine Lagarde. «La chiusura del governo degli Stati uniti è un danno abbastanza grosso, ma il mancato alzamento del tetto del debito avrebbe conseguenze ancora peggiori, non solo per l’economia americana ma per quella gobale», ha dichiarato il direttore del Fondo monetario internazionale agli studenti della George Washington University. «Risolvere questa situazione il più presto possibile è un imperative cruciale», ha aggiunto ancora Legrand.
Ha fatto eco alla sue preoccupazione un rapporto del Ministero del tesoro che definiva «potenzialmente catastrofica» l’ipotesi di un default sul debito, anticipando la possibilità di una recessione ancora più grossa di quella avvenuta nell’autunno del 2008.

Sempre mercoledì Wall Street è stata in visita dal presidente Barack Obama e dal vice Joe Biden, nelle persone dei Ceo di Goldman Sacks, Bank of America e JPMorgan Chase. Loyd Blakfein, capo di Goldman Sacks, ha previsto conseguenze «altamente negative», nell’eventualità di un default, e dichiarato che «una trattativa politica va condotta nel forum delle politica, non usando la minaccia di mettere gli Stati uniti nell’impossibilità di mantenere fede ai suoi obblighi».

Mercoledì sera, Barack Obama aveva invitato alla Casa bianca i leader di entrambi i partiti e di entrambe le Camere di governo. Ma l’incontro al vertice non aveva portato a nulla: il presidente USA è infatti rimasto fermo sulla sua posizione di non accettare trattative politiche vincolate alle questioni del budget e del deficit.
«Non intreprenderemo nessun negoziato fino a dopo il passaggio di una legge che permetta al governo di funzionare e fino a che il Congresso non autorizzerà il ministero del Tesoro a saldare della spese che il Congresso stesso ha già autorizzato», ha detto Obama in un’intervista al canale tv Cnbc. Con lui solo allineati il presidente del Senato Harry Reid e la leader della minoranza alla Camera, Nancy Pelosi.
Ieri mattina, Obama ha continuato a tenere alto il tiro contro l’ostruzionismo repubblicano: «Tutto quello che sta succedendo non è dovuto a una crisi finanziaria ma a un irressponsabile blocco dei repubblicani a Washington… Solo cinque anni fa la nostra economia era in cadura libera. Non possiamo, adesso, mettere a repentaglio tutto il progresso che è stato fatto. Più si va avanti così e peggio è. E non ha senso: gli americani eleggono dei rappresentanti affinche la loro vita sia resa più semplice, non più difficile».

Dietro all’imperturbabilità dei volti dello speaker John Boehner e del leader repubblicano al Senato Mitch McConnell deve esserci panico dentro alle file del Gop che, di intransigenza in ingtransigenza, si è chiuso in un angolo strettissimo.
Fonti della Camera anticipano al NYTimes che, nonostante il filo rosso che lega la sua sopravvivenza politica al Tea Party, Bohener, all’ultimo minuto, non permetterà all’America di andare in default. La prossima mossa è loro, anzi sua. Il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman spiega questa guerra contro l’Obamacare come il prodotto di «un prodotto dell’antagonismo di classe e di un movimento di destra radicale che è sfuggito al controllo dei suoi beneffattori ultra-ricchi. «Sta emergendo un aspetto da lotta di classe in questa battaglia – ha scritto – che ha messo gli interessi dell’1% contro quelli delle famiglie con basso reddito».