Da impresario edile a contratto per le truppe Isaf in Afghanistan, a fuggiasco minacciato dai Taliban. È l’estrema sintesi della storia di Shouaib, 25enne di Kabul, fuggito a febbraio con la moglie e i figli di 9, 6 e 4 anni, più uno di appena 5 mesi. Shouaib aveva un lavoro dignitoso e sicuro, cosa rara in Afghanistan, era il titolare di un’azienda avviata da 12 anni, che durante il comando italiano, tra il 2006 e il 2008 ha realizzato la recinzione alla base di Invicta a 27 chilometri dalla capitale. Lo sentiamo telefonicamente mentre si trova al campo Vial, a Chios, uno dei famigerati hotspot che di fatto funzionano da vere e proprie carceri per i migranti ‘irregolari’, dove al momento si trovano 500 persone circa, molti gli afgani, destinate al respingimento in Turchia. «Ho costruito edifici e strade un po’ ovunque nel Paese, anche per inglesi e americani», spiega evidenziando un certo orgoglio per il suo lavoro, e mandando via telefono alcune foto che lo ritraggono con militari italiani e inglesi.

Le cose sono precipitate circa 2 mesi fa, quando è finito nel mirino dei Talebani. «Mi hanno avvicinato due volte. La prima è stata una minaccia verbale. Si sono rivolti a me chiamandomi ‘angrezi’ (straniero), dicendo di essere al corrente del mio operato per le truppe Isaf» racconta Shouaib in merito all’ultimatum giunto dagli ‘studenti’ orfani del Mullah Omar, che malgrado 15 anni di guerra contro gli eserciti più armati al mondo, da tempo stanno riprendendo il controllo su ampie aree in Afghanistan. «Se non ti fermi ti uccidiamo», l’avvertimento rivolto all’impresario da una voce al telefono. Minaccia ignorata da Shouaib, convinto di poter comunque trovare una soluzione, ma così non è stato. Perciò, alcuni giorni dopo «sono arrivati su una motocicletta, in due, uno alla guida l’altro con il kalashnikov in mano, ha sparato mentre uscivo di casa». L’uomo si è buttato a terra in tempo, e i proiettili sono passati sopra di lui, conficcandosi sulla porta d’entrata.

Gli aguzzini sono scomparsi nel nulla, ma per lui la decisione è stata chiara e immediata: fuggire! Inutile chiedere aiuto alla polizia «so come funziona. Rivolgendomi ai poliziotti mi sarei complicato la vita, avrebbero chiesto soldi per proteggermi, senza poi fare nulla».

In una manciata di giorni lui e la famiglia hanno abbandonato una bella casa nella capitale, e lasciato tutti i mezzi aziendali ai parenti rimasti in Afghanistan. Quindi il volo su Teheran, in Iran, e da qui il contatto con i trafficanti, per essere immessi nel canale clandestino diretto in Turchia. Shouaib ha sborsato ai trafficanti più di 10 mila dollari. 750 a persona per arrivare alla costa sul mare Egeo, poi altri 1000 dollari per ogni posto su un gommone diretto all’isola di Chios, «40 persone a bordo, se il motore si fosse spento avremmo di certo imbarcato acqua finendo a picco. Per fortuna tutto è andato bene». Quasi due mesi di viaggio in condizioni difficili, per arrivare a solcare l’Egeo con un giorno di ritardo, il 21 marzo, appena 24 ore dopo l’entrata in vigore dell’accordo Unione europea-Turchia, che funge da spartiacque nella gestione dei migranti diretti in Europa.

Per Shouaib, i figli e la moglie questo significa fermo per immigrazione illegale, internamento nell’hotspot di Vial e prima o poi la deportazione nel campo allestito a Dikili, sulla costa turca, per poi essere rimandati in Afghanistan. Almeno questo è il timore della famiglia, che ritiene di avere pieno diritto ad ottenere asilo in Grecia, in quanto «ritornare in Afghanistan per me significherebbe essere ucciso».

Al momento Shouaib e famiglia restano bloccati a Vial. La loro stanza è ricavata da un container coibentato, condiviso con altre undici persone. «Siamo stipati e scomodissimi. Non ci sono servizi sufficienti, l’acqua è gelida pertanto non riusciamo a lavarci da 16 giorni. Capisci? Non riesco a lavare i miei figli da più di due settimane!», protesta, «ci trattano come criminali. Non si può parlare con nessuno per spiegare la situazione, mancano informazioni, e non so come presentare richiesta di asilo in Grecia, il mio è un caso grave». Il problema della mancanza di informazioni è una costante, non solo a Vial, hotspot gestito da polizia ed esercito, anche se nessuno sa chi abbia la responsabilità diretta, e di fatto municipalità e governo si passano la palla a vicenda. Le registrazioni al campo sono a cura della First Reception Agency greca, mentre Frontex, l’agenzia per la gestione dei confini extra-UE è impegnata nello screening dei nuovi arrivi via mare e nel pattugliamento dell’Egeo.

A complicare le cose ci sono sospetti di irregolarità nelle procedure di richiesta asilo in Grecia. Il problema è che di fatto, all’interno dei campi non esiste un monitoraggio indipendente dei respingimenti e delle procedure per i richiedenti asilo. Questa lacuna sta alimentando rumors di possibili abusi ai danni di chi, come Shouaib, richiede la protezione del governo greco, opzione al momento negata dalla chiusura sistematica dei sorveglianti al campo, e dall’impossibilità di mettersi in contatto diretto con ufficiali cui spiegare la particolare natura del caso.

Questa è la denuncia di molti volontari presenti sull’isola di Chios, al pari dei colleghi operativi a Lesbo, impegnati in un’indagine indipendente, i cui risultati saranno consegnati ad Amnesty International.

Il caso tipo riguarda una famiglia di curdi siriani fuggiti dai bombardamenti (turchi), la cui istanza di richiesta di asilo fatta a Chios sarebbe stata modificata dopo la presentazione formale. Cancellata la croce alla casella ‘si’ e messa la spunta sul riquadro ‘no’, il che equivale al rifiuto di richiesta formale d’asilo in Grecia, da cui l’inevitabile respingimento in Turchia. Per ora non ci sono prove tangibili, l’indagine è in corso, ma testimonianze simili si susseguono con frequenza sempre maggiore.