Sembra che il solstizio d’estate, afoso e luminoso come non mai quest’anno, abbia inaugurato la stagione dei festival (non solo cinematografici) che oramai tornano in presenza, indicando e celebrando gli spazi, la loro fisicità, la suggestione che emanano non solo dagli schermi – magari posti nelle piazze urlanti di rondini, nei giardini all’ombra delle facciate in fiore, in qualche silenzioso andito scampato al clamore della città rovente –, ma anche attraverso le tende vellutate, le pareti ovattate, il falsopiano dei pavimenti in parquet, delle sale al riparo delle canicole, in quanto elementi che contribuiscono alla visione (la invadono), spazi concreti che si mischiano, si confondono con le figure baluginanti sullo schermo.

NEL CASO dello ShorTs di Trieste, che inizia il primo di luglio per terminare il dieci, gli spazi sono quelli del Giardino Pubblico Muzio de Tommasini, con lo specchio d’acqua verdastro che evoca cose come Ninfee, passeggiate incastonate nei viali di ghiaia mentre leggi Proust; il Cinema Ariston e la Casa del cinema a Piazza Duca degli Abruzzi. In questa orografia così sfaccettata avranno luogo (proprio nel senso di fondersi con i luoghi, con la materia dei contesti) le proiezioni, gli incontri con gli autori, le esperienze ibride della VR all’interno di un festival che ora vanta una sezione di lungometraggi («Nuove impronte») disposta nel senso della discontinuità formale e tematica e in cui spicca quest’anno il film di Samuele Sestieri Lumina. Frutto della collaborazione con Pietro Masciullo (alla sceneggiatura) e Fabio Bobbio quale montatore, già regista cinque anni fa del magnifico I cormorani, si tratta di un film dall’impronta lynchiana, sbaraglio spazio-temporale che mostra, rivanga gli archetipi cinematografici, i meccanismi di evocazione e di dissipazione delle immagini e della coscienza: un dispositivo eidetico che attinge tanto a piani lunghi, ieratici, come malickiani, quanto ai filmati amatoriali sgranati, spesso incandescenti.

UN VIBRARE dell’immagine, un’irrequietezza endemica della sostanza stessa che satura e svuota nel tempo i tratti, il quadro, proprie anche del cinema di Alice Rohrwacher a cui viene assegnato il premio Cinema del Presente, occasione, oltre che per una masterclass della regista (il 9 luglio), anche per rivedere il suo capolavoro, Lazzaro Felice, forse, insieme a Martin Eden il film italiano più stupefacente uscito negli ultimi anni, teso com’è tra Olmi e Pasolini, vagante al di là del tempo e dello spazio, in quella direttrice feconda nel cinema italiano contemporaneo che è anche, appunto, di Pietro Marcello. Un cinema, a pensarci bene, contiguo, per incandescenze e ruvidità della superficie dell’immagine, a quello di Giuseppe Gaudino a cui lo ShorTS dedica un omaggio (nella sezione «Rewind»): in questo senso mi sembra che il palinsesto offerto dal festival mostri una certa consecuzione, la via per delle corrispondenze teoriche e tematiche che spesso sono l’anima di queste mostre.

È QUEL GAUDINO ammantato di mito – non solo perché il mito, in veste flegrea, è al centro del suo cinema, ma anche perché la sua figura di regista autore di soli due lungometraggi di finzione nel giro di quasi vent’anni, è sempre invocata, attesa con ansia dai cultori di un cinema segreto, arcano: ad esempio a Venezia, nel 2015, quando la stampa, quella più cinefila, era tutta spasimante prima della proiezione di Per amor vostro in Darsena, in una mattina che sapeva di smobilitazione –, punto di riferimento per quei registi che si possono fare rientrare in una sorta di espressionismo cinematografico italiano: penso almeno a Gaglianone (anche solo il magnifico Pietro basterebbe a confermare questa sintonia) e ai fratelli De Serio.
Di Gaudino, impegnato anche in una masterclass l’8 luglio, verranno proiettati all’Ariston il documentario Per questi stretti morire codiretto con Isabella Sandri (anche fotografa, produttrice, cosceneggiatrice di molti lavori di Gaudino e anch’essa presente a Trieste in quei giorni), il corto d’animazione Gli amori di Aldis. Amore 101, 102, 103… in cui ci sono le avvisaglie di quella «modalità animata», problematica – la problematica del movimento, dell’immagine in movimento – che sarà parte fondante di Per amor vostro e, prim’ancora, di Giro di lune tra terra e mare, il film che nel 1997 rivelò, riversò sugli schermi di quella fine di secolo, una visionarietà straripante per quanto estenuata, la prospezione dello sguardo nelle ambagi terrestri e sotterranee, ricavandone chiaroscuri, frammenti di un’umanità cruenta e tenera, fotogrammi animati, disarticolati, del mito.

L’OCCASIONE è imperdibile per poter rivedere, o vedere per la prima volta, un film da tempo sparito dalla circolazione: la copia in 35 millimetri proviene dalla Cineteca Nazionale ed è la superficie ideale – così tattile, così satura di sostanza, di nitrato d’argento – dell’incarnazione delle inquietudini e delle speranze di uno degli autori più misteriosi del recente cinema italiano.