«Se si può dire tutto senza sforzo, non si può agire se non pagando in prima persona e giacché le tecniche d’arte per opposizione alle molli ideologie tengono conto delle possibilità e della materia resistente, allo stesso modo il fare rispetto al ben dire rappresenta il senso dell’ostacolo e della difficoltà reale». Maguy Marin, coreografa che in quasi quarant’anni di ricerca ha costantemente sollecitato il pubblico a riflettere sul rapporto tra l’uomo e il mondo di cui facciamo parte, cita il filosofo Vladimir Jankélévitch, dal Trattato delle virtù, ricevendo sabato sera, al Teatro Piccolo Arsenale, il Leone d’Oro alla carriera per la Danza 2016 consegnatole dal Presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta e dal coreografo Virgilio Sieni, direttore del settore Danza e del 10° Festival Internazionale di Danza Contemporanea, apertosi venerdì in laguna.

Una visione combattiva, legata al fare, non a proclami di facciata, un invito che dal palcoscenico sarebbe bello animasse oggi anche la nostra politica: «questa riconquista di ogni minuto – dice ancora Marin – non è forse il nostro grande combattimento ossia la nostra perpetua agonia e la nostra continua rinascita?»

Marin è un’artista – dice la motivazione del Leone – «che di volta in volta ha rivelato la complessità dell’uomo contemporaneo, mettendo in relazione i sentieri dell’umano con gli spazi necessari alla ricerca coreografica. Un corpo politico nel senso di una continua e rinnovata presenza». Dagli anni Ottanta Marin non si è mai adagiata su formule fisse: da quel formidabile May B da Beckett, nel 1981, con i suoi uomini e donne stretti in gruppo, i visi bianchi, i passi strascicati su La Morte e la Fanciulla di Schubert, al primordiale, epifanico Eden, del 1986, di cui in Biennale è stato ripreso l’altro ieri il Duo, dalle sagaci rivisitazioni Cendrillon e Coppelia, firmate per il Ballet de l’Opéra de Lyon, ai radicali Turba e Description d’un combat, fino al travolgente BiT, in cui una farandola ballata su pareti scoscese trasforma la danza in un affondo sorprendente sulla violenza e sulla confusione dell’oggi, Marin ci dice sempre qualcosa su noi stessi.

Peccato non aver potuto vedere a Venezia uno spettacolo con la sua compagnia al completo, ma solo il cammeo da Eden. Per scoprire il suo ultimo progetto bisogna andare a Montpellier dal 25 al 27 dove Marin, insieme a altri otto artisti, presenta l’opera «polimorfa» Passion (s) con riferimento al Bach de La Passione secondo Matteo.

Ma torniamo alla Biennale. Il Cenacolo Palladiano della Fondazione Giorgio Cini ha fatto da ispirazione alla performance site-specific Outlander della Shobana Jeyasingh Dance: la più interessante da un punto di vista coreografico. A partire dalla tela del Veronese Le nozze di Cana, Shobana Jeyasingh firma un pezzo con tre danzatori che dai gesti della comunità rappresentata sul dipinto, dalla architettura dello spazio, dalla figura di Cristo, fanno emergere a contrasto un immaginario contemporaneo. I tre danzano al centro di una piattaforma posizionata tra gli spettatori seduti in fila lungo i lati del cenacolo e le loro performance attraversano le declinazioni multiculturali di Jeyasingh che dagli anni Ottanta studia e pratica la contaminazione tra la danza contemporanea e il Bharatanatyam.

Un’occasione sprecata, invece, la nuova creazione dell’israeliano Emanuel Gat, Sunny, con il musicista Awir Leon, un concerto musicale con sperimentazione coreografica in forma libera – dice il programma – da cui però non emerge alcuna necessità compositiva: il pezzo è prolisso e non bastano gli ottimi danzatori, né i costumi continuamente cambiati, né la mascherata finale, né le variazioni musicali su Sunny a renderlo riuscito. Peccato perché era il titolo più atteso e corposo (80 minuti) del primo weekend.

Tra gli altri protagonisti anche la franco-algerina Nacera Belaza, in scena con danzatrici magrebine ne La Traversée e Sur le fil, pezzi in cui la ripetizione del movimento circolare rimanda a una riflessione di per sé significativa e importante sul rapporto tra costrizione e libertà nelle donne e nella cultura di appartenenza della coreografa, anche se la dilatazione temporale di un movimento sempre identico a se stesso non convince come unica possibilità di strutturazione compositiva.

Nel primo weekend del Festival di Sieni, molti i titoli dedicati al College, il progetto di formazione della Biennale. Da segnalare per compiutezza e originalità Verso la specie di Claudia Castellucci su musica di Stefano Bartolini, un rigore quasi monastico per uno studio sulla coralità e sul camminare in cui predomina la figura del cerchio e una messa a fuoco del potenziale drammatico del dettaglio gestuale.

Tra gli italiani plauso anche a Daniele Ninarello che con il musicista e compositore Dan Kinzelman ha presentato alle Sale Apollinee della Fenice Kudoku, performance di composizione istantanea in cui il gesto dialoga con il suono a partire da un movimento parcellizzato che via via si amplia fino a coinvolgere tutto il corpo in una ipnotica relazione con lo spazio.