Impresa impossibile una sintesi critica – lo sarebbe già un mero repertorio ragionato – dell’infinita colluvie letteraria e artistica affollatasi sull’Evento designato da due dizioni, «Olocausto» e «Shoah», nel tempo ricusate da gran parte di coloro che a questa radice, matrice (per dirla con Paul Celan), si sono sentiti inestirpabilmente connessi. Un titolo anodino come La Shoah oggi non rende dunque giustizia a un testo come quello di Arturo Mazzarella che ha il suo riferimento-chiave piuttosto nel sottotitolo, Nel conflitto delle immagini (Bompiani, pp. 303, € 13,00): testo che infatti tutto è meno che una rassegna. Bensì un saggio appuntito, e tendenzioso anzi, che ardisce avanzare – su un repertorio dalla bibliografia sterminata – una tesi nuova.

All’evento preferiva non dare un nome Celan, se non alludendovi con la perifrasi «ciò che è stato» (in ciò concorde con Primo Levi: «meditate che questo è stato»). Già tale tendenziale innominabilità ci introduce a uno dei temi maggiori di Mazzarella, cioè la discussione – violenta, a cavallo del Duemila – tra i portatori di una «teologia negativa» dell’inimmaginabilità (e dunque irrappresentabilità) di ciò che è stato, come il Claude Lanzmann del grandissimo film Shoah (nove ore e mezza uscite nel 1985), e coloro che viceversa ne hanno riaffermato la «più profonda e profana storicità», dunque la possibile e anzi necessaria resa in Immagini malgrado tutto (questo il titolo di Georges Didi-Huberman, del 2003, che resta la più importante trattazione del tema).

Il paradigma dell’irrappresentabile prolunga la cancellazione che dell’Evento teorizzarono coloro che lo avevano perpetrato (come prescrisse alle sue SS Himmler nell’ottobre del ’43); mentre all’inverso compito di chi malgrado tutto è restato è quello di operare «una rappresentazione di Auschwitz (…) un’apertura – intervallo o ferita – non mostrata come un oggetto, ma iscritta direttamente nella rappresentazione, come la sua stessa venatura, la sua verità»: così Jean-Luc Nancy in un saggio dal titolo a doppio senso, La rappresentazione interdetta.
Il che ovviamente non giustifica le banalizzazioni le edulcorazioni e gli scempi di quella che negli ultimi anni s’è meritata la definizione di Pop-Shoah (ma la si dica, ormai, Kitsch-Shoah) perpetrata dall’industria culturale. Innumerevoli ormai i casi in cui il riferimento a ciò che è stato non è che un frisson superàddito a canovacci risaputi e grossolani (che alcuni fra questi abbiano conseguito premi prestigiosi è un’aggravante). Laddove proprio Didi-Huberman ci insegna come l’eccezionalità del tema imponga, a chi lo affronti, una tensione linguistica che ha per esito, quasi sempre, «un’immagine-lacuna (…), un’immagine-traccia e un’immagine-sparizione al tempo stesso», che «testimonia di una sparizione e al contempo resiste a essa». È la sorte toccata alle quattro uniche immagini dall’interno delle camere a gas, commentate da Didi-Huberman; ma è anche la sostanza delle migliori opere che abbiano tentato di vedere, e dunque di mostrarci, ciò che è stato. Esemplari, ai due capi di questa storia, Notte e nebbia di Alain Resnais (1955) e I figli di Saul di László Nemes (2015).

La tesi di Mazzarella è che questa discussione sulle immagini sia tutto meno che accessoria. Se è vero che «il significato della Shoah si estende ben al di là dell’evento storico con cui ha coinciso», è perché vi permane una «forza dinamica analoga alle Pathosformeln individuate da Warburg»; e tale residuo riguarda proprio il «conflitto delle immagini».

Non solo quello fra le interpretazioni a posteriori delle rare immagini-traccia giunte sino a noi, bensì quello scatenatosi nell’occhio cieco dell’Evento tra carnefici, vittime e spettatori. I primi chiamavano i secondi, si sa, «Figuren»: «burattini, bambole, o Schmattes, cioè stracci» (così nel film di Lanzmann); ma anche, secondo Mazzarella, meri contorni, «fantasmi», «pure immagini» deprivate di volto, sguardo, singolarità.

Le SS prima di tutto dovevano cancellare – ricorda Robert Antelme – appunto lo sguardo di quelle Figuren, cioè l’umanità del loro volto. Se il Lager è l’Inferno, metafora ossessiva, è anche perché «loco d’ogne luce muto».

“Notte e nebbia” di Alain Resnais, 1955

Viceversa ricorre nelle vittime la volontà strenua di trattenere non solo immagini malgrado tutto, ma «immagini innanzitutto». Si spiega così l’insistenza ossessiva, nei testi letterari più alti di questa costellazione, sugli occhi: emblematici l’opera di Celan o Austerlitz di W.G. Sebald. In autori come questi, che non hanno visto coi loro occhi ciò che mille volte hanno dovuto immaginare, siamo ormai fuori dal territorio della memoria ed entriamo in quella che la riflessione contemporanea ha chiamato «post-memoria»: una dimensione che presto (ha indicato David Bidussa in Dopo l’ultimo testimone, Einaudi 2009) perterrà all’intero spazio pubblico. Tanto più urgente, dunque, una sua definizione di paradigma.

In tal senso le letture forse più preziose sono quelle dedicate a W. o il ricordo d’infanzia di Georges Perec (1975) e alle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard (1998). Quella di W. è una storia che perseguita lo scrittore oulipien figlio, come Celan, di vittime della Shoah, ma che dell’Evento non può trattenere una memoria individuale: nella quale deve allora innestare la protesi di una «memoria di finzione». Mentre Godard teorizza che «non c’è un’immagine, ci sono solo delle immagini».

In entrambi i casi solo il montaggio può generare il pensiero, l’idea che etimologicamente davvero raffigura l’Evento (niente di diverso aveva già fatto Resnais, del resto, montando le immagini-choc alla liberazione dei Campi con la Polonia bucolica di dopo).

Esemplare la concettosità con la quale Godard monta la voce di Celan che legge Todesfuge coi primi piani sensuali di Liz Taylor in Un posto al sole (1951) del George Stevens reduce dalla documentazione dei Nazi Concentration Camps. Evidente la polemica contro il doppio regime dell’immagine, fra tragedia «vera» e intrattenimento hollywoodiano; ma forse Godard intende alludere pure all’apologo del film: nel quale l’arrampicatore sociale interpretato da Montgomery Clift, per accaparrarsi il trofeo della ragazza dell’alta società (Taylor appunto), deve disfarsi della fidanzata rimasta incinta, l’operaia Shelley Winters, che lascia annegare senza pietà.

In vitro si riproduce così la logica nazista che deve reificare in Figure coloro che si oppongono ai suoi progetti. Monty finirà sulla sedia elettrica: come dopo Norimberga erano stati impiccati Rosenberg, Ribbentrop e soci. Le immagini sono materia spinosa, si sa, e tendono invariabilmente a confliggere. Ma alla fine, qualche volta, fanno giustizia.