Il primo dei dodici processi secondari, rispetto al grande processo di Norimberga in cui furono giudicati i nazisti colpevoli di crimini di guerra e genocidio, fu dedicato ai medici che avevano praticato sperimentazioni per lo più inutili, dolorose e letali, sui prigionieri dei campi di concentramento e di sterminio. La celebrazione di quel processo, ricchissimo di documenti e di testimonianze, tra dicembre 1946 e agosto del 1947, portò alla nascita dell’attuale etica medica: centralità del paziente, suo benessere, consenso informato. Principi basilari che erano stati disattesi e gravemente violati già prima e fuori dai campi, quando l’Aktion T4 aveva soppresso – la chiamavano «eutanasia» o «morte pietosa» – migliaia di tedeschi disabili, bambini con malformazioni, pazienti psichiatrici veri o presunti, epilettici, malati cronici. Tutte vite che il Reich reputava «non degne di essere vissute» e avviava a morte in autobus grigi, i sinistri veicoli in cui fra il 1939 e il 1941 si fecero le prime prove per l’uso del monossido di carbonio come mezzo di eliminazione collettiva, e poi in centri camuffati da cliniche e dotati di docce a gas, forni crematori, anagrafe interna per false certificazioni. La purezza della nazione e la salute demografica del popolo tedesco furono affidate a una macchina efficiente e impietosa che continuò a funzionare anche dopo la sospensione del programma T4 sancita da Hitler per sedare le proteste della Chiesa e il malcontento dei parenti. Ma la sospensione era solo formale, perché il programma proseguì con maggior segretezza di prima e con azioni capillari, non più massicce ma sgranate.
Nelle parole di Valentina Gazzaniga, il processo ai medici nazisti costituì «una sorta di limes, un confine di fondazione per l’etica medica contemporanea». Educazione e memoria si saldano così perfettamente in un volume miscellaneo che raccoglie i contributi offerti da studiosi di diverse discipline, Medicina e Shoah Ricordare il male e promuovere la bioetica a cura di Silvia Marinozzi, (SUE-Sapienza Università Editrice, pp. 253, € 14,00). L’educazione ai valori etici della medicina odierna attraversa una memoria storica dolorosa quanto imprescindibile, che vale non solo «come denuncia delle atrocità e strumento per onorare le vittime» – scrive Eugenio Gaudio nella premessa – ma anche «come partecipazione al progetto di umanità nato a Norimberga, di difesa dei diritti umani e dei popoli». L’occasione del libro è didattica, e così la sua finalità, ma l’ampiezza e la varietà degli aspetti trattati ne fanno un contributo collettivo multidisciplinare che si offre anche a una divulgazione più larga, non solo di storia della medicina ma – dichiara Marina Caffiero – di «storia tout court» poiché indaga sia le «radici degli stereotipi» pregiudiziali, sia le peculiarità dell’antisemitismo nei secoli. Che la minoranza ebraica costituisca «un esempio paradigmatico per l’analisi delle relazioni tra gruppi maggioritari e minoritari» chiama a ripensare i rapporti di forza e, deleuzianamente, l’egemonia politica, linguistica, ideologica, esercitata sulle minoranze. Ha ragione allora Livia Ottolenghi: il connubio tra educazione e memoria, le rinnovate indagini sulla Shoah sono «strumenti necessari per decodificare i segnali di pericolo» nell’Europa odierna.
È bene, dunque, ricordare quanto l’interesse del capitale incise sull’uso di cavie umane nei campi – la sperimentazione farmacologica fece il più alto numero di vittime –, e ripercorrere le tappe che portarono il nazismo, nell’inasprimento ideologico della repressione, alla soluzione finale, come ha fatto Umberto Gentiloni Silveri; ed è altrettanto utile osservare con Damiano Garofalo metodi e prodotti della propaganda – film, poster, opuscoli, finanche una mostra, L’ebreo errante, allestita a Monaco nel 1937 – contro i «deformi», i «degenerati» e i nemici, ovvero contro gli ebrei investiti da tutte tre le accuse. E toglie qualche vecchio alibi il contributo di Emmanuel Betta sulle Leggi razziali fasciste e la Shoah italiana che, sulla scorta di Michele Sarfatti, focalizza la «svolta formale terribile» della legge razziale da cui furono investite le colonie già nel 1937, e illustra il «contributo concreto e fattivo, sul piano ideologico come su quello pratico, degli italiani all’elaborazione culturale del razzismo», tramontata da tempo «l’ipotesi di un duce razzista riluttante».
All’oggettiva ricostruzione della politica biomedica nazista contribuisce la gran mole di documenti lasciati dai medici che usarono l’uomo per sperimentare la potabilità dell’acqua marina, sterilizzazioni di massa, depressurizzazione e ipotermia. Sul fronte opposto erano i medici ebrei detenuti nei campi e costretti ad assistere agli esperimenti e a predisporre le periodiche selezioni interne dei prigionieri da mandare a morte. Conflitti interiori e sensi di colpa rimasero vivissimi – osserva Fabio Gaj – anche in chi aveva cercato di alleviare le sofferenze dei compagni, di redigere referti falsi o di inficiare gli esperimenti.
Ma è nei rapporti con il passato che emergono, al tempo stesso, inviluppi e chiarimenti: è nella storia della ghettizzazione, «straordinariamente complessa e sfaccettata», spesso «in contraddizione tra tolleranza e repulsione», scrive Serena Di Nepi; e nel tradimento di Ippocrate, o – propone Marco Cilione – nel confronto tra modello spartano e platonico e modello nazista di politica demografica, ovvero tra teknopoiía per mantenere il corpo dello stato e Lebensborn per nazificare il mondo.