Molti anni prima che il suo ufficio stampa traducesse il programma in quote di gender, etnia e preferenza sessuale (riprese pedissequamente dai media internazionali e imitate dai comunicati stampa di altri festival ) il Sundance è stato – tra le altre cose – un luogo indispensabile per l’affermazione del cinema delle donne. Le maggiori registe americane delle ultime generazioni – da Barbara Kopple, Bette Gordon e Barbara Hammer, a Kelly Reichardt, Debra Granik, Mary Harron, Karin Kusama e Alison Anders – hanno grandemente beneficiato dell’attenzione dei distributori e della luccicanza indie, che arriva, sia in Usa che all’estero, con una presentazione a Park City.

L’EDIZIONE 2019 aveva messo sulla mappa soprattutto Pippa Bianco (Share) e Alma Har’el (Honey Boy). Quest’anno, il festival è iniziato con un mix promettente di registe note, e non.
È un adattamento letterario «alto» (come il meno riuscito The Last Thing He Wanted, dell’afroamericana Dee Reese, da Joan Didion; qui nella sezione Premiere) il bellissimo nuovo film di Josephine Decker, Shirley, tratto dal libro di Susan Scarf Merrell (2014), scritto da Sarah Gubbins (I Love Dick) e che, oltre a Christine Vachon, conta tra i produttori anche Martin Scorsese.

In effetti, il cinema movimentato e sensuale che ha finora caratterizzato le introspezioni psicologiche della regista di Madeline’s Madeline ha qualcosa dell’irrequietezza dell’immagine scorsesiana e della sicurezza del suo gesto. Parte ritratto d’autore, parte racconto gotico e parte un febbricitante trip onirico, Shirley racconta un capitolo della vita della scrittrice horror Shirley Jackson, interpretata da Elisabeth Moss. Il set è un college di liberal arts nel cuore del Vermont, a Bennington, all’inizio degli anni sessanta. Perfetto per una premessa tra Dracula, Chi ha paura di Virgina Woolf? e Jane Campion come quella inscenata da Merrin e Decker con l’aiuto delle immagini belle e insidiose di Sturla Brandth Groven. I giovani accademici Fred e Rose Nemser (Logan Lerman e Odessa Young) arrivano al campus dove lui è assistente di una star dell’istituto d’inglese (Michael Stuhlbarg), che è marito di Shirley Jackson (Moss è magnifica nel ruolo).

Già famosa per The Lottery, uno dei racconti più controversi della rivista «New Yorker», pubblicato nel 1959, Jackson sta dibattendosi in un blocco letterario che mette a repentaglio la stesura del suo nuovo romanzo, Hangsaman, ispirato alla storia di una studentessa scomparsa.

NON ESCE perché affetta da agorafobia, non mangia, non cucina, non pulisce ed è aggressiva con il prossimo. Nonostante l’aria malsana – la casa stessa sembra un po’ posseduta dagli spiriti – Stuhlbarg riesce a convincere la coppia di ragazzi a insediarsi con loro. E, mentre il rapporto tra il professore e il discepolo prende il corso «normale» di un’ amicizia maschile, fatta di lezioni, visite al club e di infedeltà coniugali, quello tra Rose e Shirley è molto più interessante. La tela di ragno che unirà le due donne – in una progressione affascinata e circospetta – è infatti tesa da entrambe. Se Rose all’inzio, data l’età, sembra quella più facilmente manipolabile dall’infernale scrittrice, è grazie alla sua ostinata perseveranza che penetreremo il mondo di Jackson, scivolando poco a poco dentro alla sua letteratura.

La qualità pittorica del suo lavoro, la passione per le ellissi e l’intrigo psicologico, fanno di Decker l’autrice ideale per questa sovrapposizione tra la vischiosità della realtà e l’horror della pagina. Vissuto, quanto immaginato, il rapporto tra le due donne è un corteggiamento intellettual/erotico – e una funzione del libro. Bella, pure se più convenzionale, anche la storia tra Shirley e il marito, suo ammiratore e suo critico più importante. Shirley è stato presentato a Sundance in concorso e sarà a Berlino nella nuova sezione competitiva Incontri.

DALLA GRANDE letteratura a Twitter. È Zola esordio al lungometraggio della regista afroamericana Janicza Bravo. La fonte letteraria di questo road movie che ricorda una versione senza cuore di Spring Breakers e che, non a caso, avrebbe dovuto essere diretto dal produttore/protagonista del film di Korine, James Franco, è un blocco di circa 144 tweet composti da una cameriera e spogliarellista di Detroit, A’Ziah «Zola» King, nel 2015. Racconto iperbolicolisergico di 48 ore tra commedia demenziale e crimine, dopo essere diventato un fenomeno viral, l’avventura di A’Ziah fu ricostruita da un lungo articolo uscito su «Rolling Stone».

Ma la regista/sceneggiatrice non è interessata alla linearità e al dettaglio narrativo – il formato del film, il suo linguaggio, il suo ritmo, la sua superficialità, sono quelli dei tweet originali, che Bravo mette in scena come le battaglie verbali di una screwball anni trenta. Zola (Taylour Paige) e Stefani (Riley Keough), una collega stripper appena conosciuta, partono da Detroit alla volta della Florida con l’obbiettivo di intascare ottomila dollari da una notte di spogliarello. In realtà, scoprirà presto Zola, lo spogliarello è una scusa: Stefani è una prostituta, il cosiddetto roomate che le accompagna un protettore violento, e i due hanno già preso una raffica di appuntamenti in vari hotel di lusso nei dintorni di Miami.

LA PIÙ IMPRENDITORIALE delle due, mentre cerca di sottrarsi a questo pasticcio, complicato dalla presenza dell’innamoratissimo fidanzato di Stefani, Zola convince l’amica che l’ha attirata in un tranello ad alzare i suoi prezzi. Oceano di un azzurro infinito e ineffabile, colori pastello, ragazze bellissime, clienti riassunti in un montage di genitali uno più patetico dell’altro, fughe in macchina… Alla fine arrivano le armi semiautomatiche e un tentativo di suicidio. Bravo lavora tra il kabuki, il fumetto e i Keystone Cops. Produce anche qui Christine Vachon. In concorso.