Per sottolineare il successo del programma del suo governo e della banca centrale giapponese – la cosiddetta «abenomics – a giugno 2016, di fronte al club della stampa giapponese, Shinzo Abe aveva mostrato un cartello: «Portare frutti» – Seika o dasu. Niente dati o grafici di difficile interpretazione. Solo una frase, nero su bianco, condita di parole sul calo della disoccupazione, la crescita del Pil e del reddito nazionale lordo.

Una scelta con uno scopo preciso, quella di uno dei primi ministri giapponesi più longevi dal dopoguerra: parlare all’elettorato, arrivare al popolo. Alle elezioni del 2012, il partito liberaldemocratico (Ldp) ritorna il primo partito giapponese dopo tre anni di governo del partito democratico (Dpj). Lo stile del candidato premier dell’Ldp, Shinzo Abe sembra molto per certi aspetti «diverso» rispetto ai suoi predecessori e colleghi di partito. Sembra diverso anche dal se stesso di appena sei anni prima, al suo primo mandato da premier lasciato dopo gaffe e scandali adducendo problemi di salute. Il suo incedere è più sicuro, la sua parola più diretta. Riesce ad coniare parole chiave – come «abenomics» o le «tre frecce» o il suo «pacifismo proattivo» – che rimbalzano in patria e all’estero.

Certo, Abe, politico ereditario, nipote di un ex primo ministro e figlio di un ex ministro degli Esteri conservatori, non ha il profilo dell’outsider che parla alla pancia del popolo. Lo slogan del candidato premier Abe è «riprendiamoci il Giappone» – Nihon o torimodosu -, parole che fanno leva sulla delusione dell’elettorato nei confronti dell’allora partito di governo, in chiara difficoltà nella gestione del terremoto del Tohoku e la crisi nucleare di Fukushima.

Il futuro premier è ormai un galleggiatore esperto. Giunto al potere riesce a mescolare l’immagine seriosa di capo del governo e responsabile marketing di un intero paese che, per citare un famoso articolo di Foreign Policy del 2002, siede su una «riserva infinita di soft power». Come spiegano gli accademici Devin Stewart e Jeffrey Wasserstrom su The Diplomat, Abe può essere definito un «populista leggero». Questa peculiarità, ma, soprattutto, la mancanza di alternative popolari da metterlo in discussione gli hanno permesso di restare in sella nonostante politiche impopolari e puntare a diventare il capo di governo più longevo della storia del Giappone post-bellico.

Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa bianca, alcuni autorevoli giornali, come New York Times e Financial Times, hanno dedicato articoli di elogio al Giappone, unico paese tra quelli più avanzati al mondo a non essere investito da ondate di odio nei confronti dell’establishment politico e a non avere ancora trovato un leader politico proveniente dal di fuori dei circoli del potere convenzionali. Nei mesi politicamente caldi tra giugno e novembre 2016 – con il voto sulla Brexit in Gran Bretagna e l’elezione di Trump – agli osservatori angloamericani il Giappone dev’essere sembrato un’oasi di pace e stabilità politica. Ma sostenere che il paese-arcipelago sia immune al populismo a differenza dei suoi partner occidentali per influsso della «natura gerarchica, consensuale e inclusiva della società» locale è forse troppo sbrigativo. Le elezioni per il governatore di Tokyo del 2016, conclusesi con la vittoria di una candidata indipendente, Yuriko Koike, hanno dimostrato che anche in Giappone cresce l’insofferenza nei confronti dei partiti «tradizionali» – soprattutto del blocco liberaldemocratico di Abe.

La piattaforma politica della prima governatrice della megalopoli faceva perno sullo slogan Tomin fāsuto, «Prima i tokyoiti» e su una serie di promesse di tipo populista – come la riduzione del compenso del governatore e del suo staff e il taglio delle spese gonfiate per le Olimpiadi 2020, due fattori alla base delle dimissioni del predecessore di Koike, Yoichi Masuzoe. Prima di Koike, l’ex sindaco di Osaka, Toru Hashimoto – lui sì un vero «outsider» – era arrivato al potere nel 2007, prima da governatore e poi da sindaco di Osaka, senza nascondere le sue posizioni anti-burocratiche e anti-partitiche.

Ma il populismo in Giappone ha radici profonde. Primi ministri come Jun’ichiro Koizumi (2002-2006) e Yasuhiro Nakasone (1982-1987) sono stati considerati «populisti» e, non a caso, figurano ancora tra i leader con i più alti tassi di popolarità durante i rispettivi mandati. Ma ben prima di loro fu Kakuei Tanaka, a capo del governo di Tokyo tra il 1972 e il ’74, a stabilire i canoni del populismo nipponico. Origini umili, niente laurea, Tanaka era un uomo che si era fatto da sé, sfruttando inventiva e duro lavoro. Entrato in politica, Tanaka era riuscito a costruire un sistema di alleanze politiche ed economiche con scambi di favori e mazzette e a rimanere lo «shogun dell’ombra», l’uomo politico più influente del paese anche lontano da incarichi ufficiali.

Per i suoi critici era stato il denaro a garantirgli l’ascesa politica. Ma, secondo resoconti d’epoca, erano la sua capacità oratoria, la sua generosità, la sua natura ribelle, il suo successo come imprenditore e come playboy, a valergli il sostegno popolare. Il suo piano, in parte realizzato di riorganizzare l’arcipelago spingendo sulla leva dello sviluppo infrastrutturale per portare benessere economico anche fuori Tokyo è considerato il suo capolavoro politico prima da ministro dell’industria e del commercio e in seguito da premier. Perché in fondo — come dice una frase a lui attribuita – «Voglio costruire un paese in cui tutti i cittadini possano essere felici. La politica non è cosa di nessuno in particolare, è qualcosa che va fatto per il popolo».