Un tempo la chiamavano «Camera delle Rose», per il motivo floreale della decorazione, emblema della famiglia gentilizia dei Trinci che governò sulla città di Foligno tra il 1305 e il 1439. Poi, sotto gli strati di scialbo è emerso – ormai cent’anni fa – il raffinatissimo ciclo di affreschi, che restaurato recentemente è stato attribuito a Gentile da Fabriano e alla sua scuola, raffigurante le Arti Liberali con i sette pianeti e le sette età dell’uomo, simboleggiate da un’ora del giorno.
In questa sala imponente di Palazzo Trinci, autentico gioiello di architettura gotica, è ospitata la mostra «Hanafuda Shouzoku» del fotografo giapponese Shinya Masuda (Nagoya 1965, vive e lavora a Tokyo), nell’ambito di Umbria World Fest 2018 – 1%- I’m rich you’re not – festival fotografico ideato e diretto da Piter Foglietta (visitabile a Palazzo Trinci, Foligno fino a domenica) con la consulenza artistica di un team di esperti: Marco Pinna, Lina Pallotta e Diego Orlando.
Al centro, davanti al grande camino di pietra grigia, le diciotto fotografie selezionate (il progetto consta di cinquantotto immagini ed è tuttora in corso) – presentate per la prima volta in Italia – sono disposte sopra il lungo tavolo di legno scuro, come a formare la base di un castello di carte da gioco.

La diciannovesima (la grande banana annerita) è stampata in formato poster ed esposta nel cortile dell’edificio. Un luogo forse meno asettico rispetto agli spazi a cui Masuda è abituato (con questa serie ha vinto vari premi, tra cui nel 2017 Sony World Photography Awards – categoria Still Life e LensCulture Emerging Talent Awards), ma certamente suggestivo e ricco di rimandi stimolanti. Intanto, queste sue immagini colorate – costruite con una logica compositiva di grande raffinatezza – attraggono e allo stesso tempo respingono, perché hanno per soggetto dei cibi andati a male. Muffe, superfici avvizzite, marciumi e seccumi vari di zucchine, radici di loto, goya, pere, sedani, peperoncini, zucca, mandarini… impietosamente (o forse solo oggettivamente) descritti nel loro imminente fluire, accanto ai fiori (dalie, crisantemi, camelie) che – invece – mantengono la loro esuberante vitalità. Anche il regno animale entra nel lavoro: una bella farfalla gialla volteggia accanto a pezzi di zucca raggrinzita. Frutta e verdura sono apparentemente freschi ma, in realtà, già proiettati nella dimensione di decomposizione e lasciano intuire anche una riflessione sullo spreco che introduce considerazioni critiche sul consumismo e sulla contraddizione ricchezza/povertà (tema del festival).

Questa sorta di tavola imbandita – metaforica offerta di cibo come atto di amore – in una chiave iconografia occidentale porta anche ad una lettura in termine di memento mori. Per Shinya Masuda più che un monito è la raffigurazione dell’accettazione dell’impermanenza della vita con le sue fragilità. I suoi still life traducono il motto buddista Shogyo Mujyo: «tutto scorre».

Ma c’è un altro elemento chiave che ci porta a vedere questo lavoro (tanto più nell’allestimento di Palazzo Trinci) come una sorta di butsudan (l’altare buddista che è «il tempio al centro della casa») dedicato a due figure centrali della sua esistenza: la madre Keiko e la nonna Katsuko (sulla terza, la moglie Masako, è focalizzato un altro progetto fotografico).

Proprio alla nonna, a cui l’autore è stato molto legato, rimanda l’idea formale del gioco delle carte giapponesi hanafuda («mazzo dei fiori»), importato nel XVI secolo dai marinai portoghesi. «Gicavo sempre con lei alle carte giapponesi, anche mentre lei dipingeva – racconta Masuda – La mia è una famiglia di artisti, fin da piccolo sono stato circondato dall’arte. In ogni stanza della casa c’erano fogli, disegni, colori. Nonna faceva pittura tradizionale giapponese, mia madre ha sempre dipinto ad olio, mentre mio zio è un designer.»

Studiare comunicazione visuale alla Nagano Art and Design School è stata una decisione successiva per lui che, fortemente condizionato dal carattere materno (è figlio unico) ha lasciato che fosse lei a decidere il suo futuro di chef. Lo fece iscrivere alla scuola di cucina francese di Nagano, dove dopo aver terminato la scuola ha aperto un suo ristorante.

«Il troppo amore mi ha soffocato – afferma Masuda – Proprio in questa frase, più che nella dimestichezza nel maneggiare frutta e verdura, si rivela la vera essenza della serie «Hanafuda Shouzoku». Un omaggio e, allo stesso tempo, un atto liberatorio nei confronti delle pressioni familiari.
Il progetto, infatti, nasce dopo che l’autore ha elaborato dentro di sé i sentimenti contradditori nei confronti dei «regali» materni. «Queste immagini sono la rappresentazione della mia vita stessa. Mia mamma mi ha sempre mandato, e continua a farlo, un grande pacco dalla mia città natale. È talmente pieno di cibo che non sono mai riuscito a mangiare tutto. Alcune volte, già durante il viaggio i cibi si guastano e arrivano a destinazione marci. Mi sono sempre sentito triste e anche un po’ frustrato. Quei pacchi contengono qualcosa di morto, sono come bare. Anche nel titolo il temine shouzoku si riferisce ai kimono bianchi indossati per i funerali. Ma c’è pure la considerazione che, come insegnano il buddismo e lo scintoismo, tutto passa e si trasforma. Nell’interpretazione che ho dato del gioco delle carte hanafuda ho inserito fiori e animali, perché quando muore qualcuno si portano fiori vivi in suo onore, per accompagnarlo nel viaggio verso un’altra dimensione. Nelle mie fotografie c’è sempre qualcosa di vivo e qualcosa di morto, qualcosa di vero e qualcosa di falso. L’ombra, all’interno della composizione, è l’unico elemento di finzione. Tutti pensano che la fotografia sia un’espressione di verità, ma non è così. L’ombra è anche un modo per catturare l’attenzione dell’osservatore».

Attraverso la fotografia, Shinya Masuda conquista la sua libertà di uomo e di artista: tutto procede in modo graduale. Quando comincia a interessarsi alla fotografia – «ritraevo qualsiasi cosa» – decide di lasciare il ristorante e si trasferisce a Tokyo dove lavora anche per la televisione. Intorno al 2002 l’incontro con Hashi, fotografo giapponese specializzato in still life che ha lo studio a New York, rappresenta la svolta. «Da Hashi ho imparato tantissimo, non solo tecnicamente, soprattutto il suo pensiero. Anche se lui, in realtà, non mi insegnava, dovevo rubare con lo sguardo». Dopo un anno e mazzo di collaborazione, non senza difficoltà, riconoscendo una certa sottomissione nei confronti dell’altro fotografo, Masuda pian piano si sente finalmente libero di prendere la sua strada nella piena autonomia.

«C’è un parallelo tra cucina e fotografia?», la domanda è quasi prevedibile. «È molto simile – risponde dopo un attimo di riflessione – Si tratta sempre di composizione. Anche in cucina, come nella fotografia, sul piatto è importante disporre il cibo, presentandolo in una maniera che rifletta anche l’estetica». Quanto alla sua ricetta preferita, non esita: l’agnello arrosto con le spezie provenzali. Un ricordo del suo passato di chef di cucina francese. «Quando lavoravo nel mio ristorante ho sempre dovuto cucinare secondo la tradizione, non potevo interpretare. L’interpretazione è arrivata con il tempo, quando da adulto mi sono reso conto che potevo spaziare e metterci più farina del mio sacco».