«La mia pratica è molto fluida. Lavoro con materiali del quotidiano. Uso suono, disegno, fotografia, video, scultura, performance… non c’è una materia o una tecnica che prevalga sull’altra», afferma Shilpa Gupta (è nata a Mumbai nel 1976, dove vive e lavora). Una dialettica incentrata sul rapporto tra visibile e invisibile, presenza e assenza, quella dell’artista indiana, in cui il pubblico è invitato a interagire esplorando nuove possibilità percettive. «È la mia storia, ma può essere anche la tua storia».

Il tutto in una chiave socio-politica che analizza con la stessa determinazione passato e presente all’insegna della circolarità di idee e movimento. Per la IV edizione della Kochi-Muziris Biennale 2018 dal titolo Possibilities for a Non-Alienated Life, curata dalla nota artista e attivista indiana Anita Dube (per la prima volta il numero di artiste donne è pari a quello degli uomini: tra le presenze Valie Export, Martha Rosler, Guerrilla Girls, Shirin Neshat, Rula Halawani, Zanele Muholi, Chitra Ganesh, Rana Hamadeh, Tejal Shah, Sonia Kurana, Priya Ravish Mehra, Nilima Sheikh) – che anima Fort Kochi in Kerala, India del sud (fino al 29 marzo 2019), l’artista presenta tre lavori del 2017-2018 complementari fra loro, tutti incentrati sulla parola: Untitled – Tracing on paper, wood, Untitled – A spoken poem in a bottle e l’installazione sonora For, In your Tongue, I Can Not Fit – 100 Jailed Poets (commissionata da Yarat Contemporary Art centre di Baku che ha recentemente ospitato la sua mostra personale) con cento microfoni sospesi, altoparlanti e testo stampato. Parole imbottigliate, ma anche parole sussurrate che ripetute si moltiplicano sfidando limiti e costrizioni, lì dove la figura del poeta incarna la forza della resistenza che è, allo stesso tempo, simbolo della sua immortalità.

Le parole di Liu Xia, Habib Jalib, Abu Nuwas (vissuto nell’VIII-IX secolo), Irina Ratushinskaya, insieme a quelle di numerosi altri poeti continuano a viaggiare nello spazio e nel tempo al primo piano dell’Admin Block ad Aspinwall House – quartier generale della Kochi-Muziris Biennale. Le voci si rincorrono in inglese, hindi, urdu, azero, cinese, spagnolo, turco e per un attimo la luce illumina l’oscurità. Si tratta di frammenti di poesie di autori che sono stati messi in prigione ma che ritrovano visibilità e voce. Una voce parla al microfono e altre 99 ripetono quello che dice quella voce: un coro che supera i confini di omertà, silenzio, paura.

Pregiudizio, sicurezza, religione, desiderio, paura, confini… sono temi che affronti nei tuoi lavori fin dagli inizi della tua carriera. Si tratta soprattutto della percezione di sentimenti intangibili che hanno un forte impatto sulla società. Nella complessità della tua pratica artistica (che qualcuno ha definito «sovversiva») segui determinate regole?
In realtà no (ride, ndr). Nessuna regola! Ero molto giovane – avevo diciannove o vent’anni – anche rispetto all’aspetto formale della mia pratica artistica, quando mi sono detta che non volevo lavorare seguendo uno stile preciso. Percepivo che le regole conducono ad una forma che porta in una direzione sola, mentre come artista una delle ispirazioni era la leggerezza. Nella leggerezza si può vedere la conoscenza, permette di capire meglio se stessi. Per capire quello che ci circonda bisogna capire noi stessi e la relazione che c’è tra noi e il contesto.

La relazione interattiva con il pubblico è parte del lavoro stesso: prendendo borse, condividendo felicità o colpa. Ti consideri un’«attivista sociale i cui lavori devono essere attivati», come ha scritto la curatrice Leila Hasham?
Non credo veramente in alcuna predefinizione di confini, inclusa la maniera in cui si intende attivista e artista, perché ci sono troppe aspettative che seguono. Mi sento anche un po’ spaventata e preoccupata di usare la parola attivista, perché fa parte di una disciplina specifica che, portata nel mondo dell’arte, cambia. Quindi, non mi piace essere definita artista politica e, allo stesso tempo, non mi sento a mio agio ad essere definita attivista solo perché realizzo opere che sono fluide. Opere che si possono prendere e portare a casa in cui, quando si spostano dallo spazio della galleria a quello domestico, la relazione può cambiare. In molti miei lavori lo spettatore scegliendo di prendere le opere diventa lui stesso il narratore. L’artista non sono più io è l’altro che lo diventa. Una volta all’inaugurazione della mostra in cui esponevo There is no explosive here nessuno voleva prendere le borse. Ho pensato oddio, il progetto collassa! Ma dopo un po’ la gente ha cominciato a prendere le borse e a portarle con sé (in questo lavoro incentrato sul tema del terrorismo l’artista invitava a scegliere una borsa che recava la scritta «qui non c’è esplosivo», fare una passeggiata in uno spazio pubblico, sedere in un caffè o stare in piedi alla fermata di un autobus, viaggiare in metropolitana e poi riportare la valigia e raccontare la propria esperienza . Anche il modo di guardare quelle borse era importante per me. Ecco, queste sono le cose che mi interessano di più, non tanto la questione di essere o non essere attivista. Preferisco che il mio lavoro venga definito «arte di tutti i giorni».

Quanto è importante l’imprevisto nella tua narrativa?
Posso dire di essere interessata ai nuovi significati che possono nascere, o anche dal mettere da parte qualsiasi significato quando la forma di un oggetto viene rivisitata. Ma ti riferisci ad un’opera in particolare?

Penso in generale all’interazione con il pubblico che è sempre diversa…
Sì, ad esempio in Blame (installazione con centinaia di bottigliette con la scritta «colpa» contenenti un liquido rosso che simula il sangue. Il progetto, nato nel 2002, ha avuto varie rielaborazioni, come quella del 2003 in seguito al genocidio del Gujarat (ndr) che ho esposto in spazi differenti. Negli spazi pubblici c’era gente che si avvicinava o magari guardava dall’altra parte, chi ha portato via dei pezzi e anche chi è tornato e ne ha preso altri. Ma c’è anche chi si è portato le bottiglie a casa e poi le ha riportate indietro, perché non poteva viverci accanto. Come pure chi le ha rotte e mi ha chiamato nel panico. Comprendo perfettamente che il significato non abbia un limite. È soggettivo, dipende dalle diverse personalità. Mi interessa che ognuno possa portare nel lavoro la propria storia, aggiungendola alle altre e fornendo una narrativa da attraversare, che possa cambiare. Anche nei lavori interattivi lo spettatore crea la propria interazione.

Accumulare parole, oggetti, voci ha un particolare significato all’interno della tua opera?
Sono interessata alla molteplicità. Quando si hanno cento poesie, cento libri o cento persone intente a disegnare mappe (100 Hand drawn Maps of India) si ha a che fare prevalentemente con la diversità e la possibilità di avere molti più punti di vista, non uno solo. Un’altra possibilità, poi, è quella di ascoltare una voce che prima non avevi mai sentito.

Le parole, in particolare, suggeriscono una chiave per accedere ad un percorso d’investigazione, come quando scrivi la parola «minaccia» su pezzi di sapone in Threat o «qui non c’è esplosivo» sulle valigie. È così?
Uso molto il testo nelle mie opere principalmente perché siamo circondati dalle parole, fanno parte della quotidianità. Ed io sono interessata al quotidiano perché permette di capire meglio noi stessi. Così come m’intessa il dubbio. Quindi uso il testo e i diversi materiali collegandoli anche a qualcosa che si dissolve, sparisce come nel lavoro con il sapone o nei disegni di Untitled – Tracing on paper, wood dove le figure dei poeti sono cancellate, ma rimangono le loro parole. Le parole offrono molte possibilità, come in I want to live with no fear (voglio vivere senza paura) dove migliaia di palloncini potevano essere presi in strada dalla gente che, camminando, li portava con sé. Questo è successo a Cincinnati, in Danimarca e molti altri luoghi. La parola permette di avere più connessione con il pubblico ed è molto più diretta. Attraverso le parole riceviamo informazioni per capire il mondo, che spesso però hanno a che fare con la vendita di un prodotto o la propaganda. Frasi come «voglio vivere senza paura» non si leggono nei giornali. Un altro aspetto che mi interessa è la relazione tra la massa e l’individuo. Uso molto la prima persona – posso dire io, ma anche tu leggi io – perché la storia dell’altro può essere anche la tua storia.