«Ho imparato a tagliare un pollo, e piango sotto alle coperte per non gettare su nostro figlio la mia tristezza». Quel gesto quotidiano, impensabile fino a poco prima, diviene per la voce femminile quasi una forma di resistenza: come sopravvivere alla tempesta, al dolore, alla morte che arriva inaspettata mentre il tutto mondo cambia e sembra quasi impossibile che possa tornare indietro? Siamo a Wuhan, dove la pandemia è cominciata, le prime immagini – di una telecamera di sorveglianza – ci mostrano quel vuoto che abbiamo conosciuto ovunque: il silenzio del lockdown, nessuno in strada a parte qualche lavoratore essenziale. Ma A River Runs, Turns, Erases, Replaces, il nuovo film di Shengze Zhu (Present. Perfect, 2019) – al Forum della Berlinale – non è un film della pandemia. Le immagini girate dall’autrice in diversi anni provano a raccontare una città diversa da quella che abbiamo conosciuto nei mesi scorsi mentre le parole che ascoltiamo ci dicono di quella cesura, di quel trauma, delle lacrime, dei rimpianti dei «se» che non avremmo mai voluto sentire, di chi si ama e non c’è più. E in questo scarto, in questa cesura tra un prima e un dopo, tra uno skyline che forse rimane riconoscibile e la frenesia delle mutazioni urbane si snoda il nostro essere oggi: l’incertezza, la ricerca di un equilibrio, le domande che si devono porre al tempo che viviamo, l’attesa. Ne abbiamo parlato con Shengze Zhu su whatsapp tra Roma e Chicago.

Il titolo, «A River Runs, Turns, Erases, Replaces» da dove viene?
Wuhan è conosciuta come la «città del fiume», è cresciuta alla confluenza tra lo Yangtze (il Fiume Azzurro) e il suo affluente, l’Han. Il fiume è il simbolo della città, per questo volevo che nel titolo vi fosse un riferimento esplicito alla sua presenza. Io stessa vivevo molto vicino al fiume, è stato parte di me sin dall’infanzia. Quando parliamo di un fiume è per sottolinearne la vitalità, il fiume è considerato un catalizzatore di cambiamento e di crescita per ogni città. Ancora adesso, nonostante quanto è accaduto a Wuhan lo scorso inverno molti la pensano in questo modo. Ricordo che alla fine del lockdown avevo letto delle interviste a alcuni abitanti di Wuhan in cui si diceva che i brutti ricordi e il dolore se ne andranno via proprio come l’acqua del fiume, e la città ritroverà la sua energia. È triste sentire frasi di questo genere. Capisco la necessità di andare avanti, ma che dire di coloro la cui vita si è fermata lo scorso inverno e delle loro famiglie? Poi alcuni amici mi hanno detto che non riuscivano a leggere o a guardare nulla che li riportasse a quell’esperienza; ricordare gli era insopportabile. Queste due diverse reazioni ci dicono molte cose. Il punto non è se vogliamo lasciare le cose alle spalle o se è troppo doloroso tenerle in mente: il tempo passa e tutto scivola via. Le vecchie memorie vengono cancellate seguendo il ritmo della vita che avanza al di là della nostra volontà. Il titolo prova a esprimere questo.

Come hai scelto i luoghi che vediamo nel film? La tua geografia segue sempre il corso dell’acqua.
Il fiume è il protagonista, visto che a Wuhan è celebrato come la vetrina privilegiata dell’enorme crescita della città; negli ultimi anni l’intera area che lo circonda è stata rinnovata e le tracce del passato sono quasi del tutto sparite. Mostrando questi luoghi speravo di mostrare anche ciò che si era perduto in nome del progresso. All’inizio usavo la mappa sul telefono provando a esplorare i posti che non conoscevo. Pian piano ho capito che mi interessavano soprattutto gli spazi in transito – i siti in costruzione, le rovine; quelle realtà che stanno per scomparire o che stanno cambiando.

La pandemia è suggerita dalle immagini iniziali di una telecamera di sorveglianza, e dalle storie di lutti improvvisi. Le immagini dei paesaggi invece appartengono al «prima» eppure esprimono un sentimento totalmente contemporaneo.
A parte le sequenze del lockdown che ho preso in rete, il film è costruito con materiali che ho girato negli ultimi anni lavorando a un progetto su Wuhan, in particolare sui cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, così rapidi da renderla ogni giorno diversa. La pandemia ha fermato tutto, da Chicago non potevo tornare lì a filmare anche se avrei voluto vedere coi miei occhi, mi avrebbe fatta stare meglio. La mia città era ancora una volta cambiata e in modo rapidissimo, io mi sentivo impotente e avevo bisogno di fare qualcosa. Ho ripreso in mano i materiali che avevo girato e ho iniziato a lavorarci montandoli in ordine cronologico: era naturale che vi proiettassi lo stato d’animo del mio presente.

Però «The River …» non è diventato un film «sulla» pandemia: rispetto alle molte immagini tutte simili che abbiamo visto durante i lockdown forse proprio per questa sua duplice natura di «memoria» e attualità riesce a parlare di noi ora, del nostro spaesamento, della nostra fragilità.
Ero molto angosciata da questo, pensavo che non era il momento migliore per un film su Wuhan, visto che per tutto l’anno passato era stata al centro dell’attenzione mediatica. Però ne sentivo la necessità, diciamo che è stato una specie di auto-trattamento. Sono andata via quando ero molto giovane, Wuhan non è come New York o Parigi o Milano, e io volevo esplorare qualcosa di nuovo, la mia è stata un po’ una fuga. Quando tutto è cominciato ero disperata, la distanza tra me e la mia famiglia, tra Chicago e Wuhan, mi faceva sentire ancora più triste. Cosa potevo fare? Ho anche capito che quel luogo è legato intimamente alla mia identità, che mi ha permesso di essere ciò che sono adesso. Per questo ho cercato di mantenere nel film i suoni di una memoria, di un passato che dobbiamo ascoltare per capire meglio il tempo a venire.