Ha fatto causa al gigante e ha vinto. Dietro la clamorosa sentenza del tribunale dell’Aja che ha condannato la compagnia petrolifera anglo-olandese Shell a dimezzare le sue emissioni di CO2 c’è il lavoro ventennale di Donald Pols, 49 anni, il direttore di Milieudefensie, la ong olandese che con altre 5 associazioni ambientaliste, tra cui Greenpeace, e il supporto di 17 mila cittadini, ha istruito il processo. Una sentenza storica di cui ora si gode il successo, che gli è costata anni di impegno.

Una ong deve avere un coraggio da leoni per pensare di fare causa a un gigante come Shell. Tutte le cause climatiche fino ad ora, sono circa 2000 nel mondo, sono state intentate contro i governi, ma mai contro un privato come una multinazionale. Come vi siete convinti che era la strada giusta da percorrere?

Si, ci è voluto del coraggio, oltre a un’enorme mole di lavoro e di denaro per un’organizzazione come la nostra. Abbiamo preso la decisione di fare causa a Shell nel gennaio 2016. Ci sono voluti cinque anni per arrivare a questo risultato, tre dei quali li abbiamo trascorsi a porte chiuse, studiando e lavorando con esperti scientifici e giuristi per istruire la causa. Abbiamo dovuto sostenere una spesa di circa mezzo milione di euro, per noi una cifra enorme, che è stata completamente coperta dalle donazioni dei nostri sostenitori.

La via giudiziaria come l’unico modo per combattere i cambiamenti climatici era stata teorizzata dal vostro avvocato, Roger Cox, nel suo libro «Revolution Justified» del 2012, nel quale sosteneva che né i meccanismi del mercato, né le condizioni politiche avrebbero reso possibile l’avvio della transizione energetica necessaria per contrastare l’effetto serra. La strategia era dunque già stata scritta….

Anch’io ero certo di questo approccio: però nel 2007, insieme con un professore di diritto e un esperto di diritti umani dell’Università di Amsterdam, eravamo giunti alla conclusione che a quel tempo non era possibile vincere una causa per il clima. Roger Cox l’ho incontrato qualche anno più tardi e a un certo punto ci siamo convinti che fosse arrivato il momento. La nostra collaborazione è stata molto costruttiva e ha funzionato molto bene.

Prima di avviare la vostra class action avete cercato di dialogare con Shell per cercare una qualche forma di mediazione. Shell come ha reagito?

Noi siamo azionisti di Shell, abbiamo un po’ di azioni, non tante, per la verità. Abbiamo partecipato alle assemblee degli azionisti per almeno 20 anni. L’amministratore delegato di Shell in Olanda è venuto persino nel mio ufficio, abbiamo cercato, attraverso il dialogo, di convincerlo a intraprendere politiche a favore del clima, ma non ha funzionato. L’amministratore delegato ha dichiarato pubblicamente di avere le mani legate dalla maggioranza degli azionisti. Ha ammesso di avere ambizioni climatiche maggiori, ma di essere limitato dai mercati. Noi avremmo preferito la strada del dialogo, ma abbiamo capito che la via giudiziaria era l’unica possibile.

A proposito di azionisti, mercoledì scorso è stato il giorno della resa dei conti per alcune compagnie petrolifere: oltre alla sentenza contro Shell, negli Stati Uniti Exxon ha dovuto cambiare il suo consiglio di amministrazione per l’azione dell’hedge fund di attivisti Engine n.1. Inoltre l’assemblea degli azionisti di Chevron ha imposto una riduzione delle emissioni. Vede possibile un’alleanza tra ambientalisti e azionisti illuminati per cambiare le strategie di Big Oil?

Credo che strategie diverse possono rafforzarsi a vicenda. Gli azionisti di Exxon sapevano che avevamo vinto la causa e questo ha immediatamente influenzato la loro decisione. Sì, vedo possibile una collaborazione tra azionisti di oil&gas e ambientalisti.

Un anno e mezzo fa un’altra organizzazione no-profit olandese, Urgenda, vinse una causa contro il suo governo, ritenuto colpevole di non fare abbastanza per mitigare i cambiamenti climatici. Nel gennaio scorso, sempre la Shell fu condannata a risarcire quattro cittadini nigeriani per i danni subiti dal disastro ambientale provocato dall’estrazione di petrolio sul Delta dei Niger. Ora questa storica sentenza. Si può pensare che i giudici olandesi siano particolarmente sensibili alle questioni ambientali e al rispetto dei diritti umani? C’è una spiegazione?

Io credo che la decisione presa dal tribunale dell’Aja contro Shell affronti alla radice la questione di cosa significa essere una azienda multinazionale. Fino ad oggi le multinazionali sono sfuggite ad ogni quadro giuridico, che di per sé ha un confine nazionale, per il fatto di essere, lo dice la parola stessa, multi-nazionali. Le multinazionali sono nate in Olanda – la prima è stata la Compagnia delle Indie – e oggi per la prima volta in Olanda una compagnia multinazionale viene obbligata al rispetto di vincoli normativi. Io credo che noi siamo riusciti a convincere i giudici di una cosa precisa: il fatto che le multinazionali si considerino svincolate dalle norme, non solo è inaccettabile, ma crea troppi impatti sociali negativi e violazioni dei diritti umani.

Infatti, la sentenza fa riferimento ai principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.

Certo. Io credo che in questo senso la sentenza sia addirittura più importante rispetto al mero raggiungimento degli obiettivi climatici.

Ce la può fare Shell a tagliare le sue emissioni del 45% in poco meno di 10 anni?

Sì. Se c’è una compagnia petrolifera al mondo che può farlo questa è Shell, che è riuscita a realizzare alcuni dei progetti più complessi mai tentati nel settore oil&gas. Hanno sia le competenze che i capitali per farlo. Loro stessi hanno dichiarato davanti alla Corte che stanno già tagliando le emissioni. Infine, anche i mercati finanziari dicono che questo è possibile. È stato interessante vedere come hanno reagito alla sentenza: il prezzo delle azioni di Shell è sceso un po’ e poi è tornato ai valori normali. Questo significa che i mercati credono che Shell possa affrontare la transizione energetica, per quanto complessa.

Nella sua difesa, Shell ha sostenuto che una soluzione non doveva essere fornita da un giudice, ma dal legislatore, cioè dalla politica. Per certi aspetti è un’argomentazione che si può condividere. Qual è, secondo lei, il ruolo della politica nell’affrontare la crisi climatica?

Io credo, come viene sottolineato nella sentenza, che di fronte ad un problema così complesso come i cambiamenti climatici ogni singolo componente della società debba assumersi le proprie responsabilità: i governi, i consumatori, le aziende. Fino ad ora le uniche a sfuggire a questa responsabilità sono state le multinazionali del petrolio. I governi hanno già fatto la loro parte, hanno firmato l’Accordo di Parigi che ha creato una nuova norma. E il giudice ha applicato questa norma decisa da governi eletti democraticamente. Inoltre, siccome le multinazionali sono così potenti da esercitare un’influenza sproporzionata sulla politica, il giudice ha ritenuto di intervenire per riequilibrare questa relazione.

La strategia difensiva di Shell per alcuni aspetti è sembrata davvero debole: nello loro carte affermano che non si fa abbastanza ricorso all’aria condizionata (sic!) e alla gestione delle coste e delle acque come strategie di adattamento ai cambiamenti climatici. Inoltre hanno affermato che obbligarli a tagliare le emissioni di CO2 sarebbe inutile perché qualche altra compagnia petrolifera si impossesserebbe delle sue quote di estrazione. Cosa ne pensa?

(Ride). Per quanto riguarda le quote di estrazione, mi sembra la stessa strategia difensiva degli spacciatori di droga quando sostengono che i sequestri di sostanze stupefacenti sono inutili perché i loro clienti troverebbero comunque dosi da altri pusher… Il giudice ha rigettato questa logica, seguendo la quale nessuna legge avrebbe più alcuna efficacia. Anche noi siamo rimasti stupiti dalla debolezza di certe loro argomentazioni. Sono convinto che Shell stessa è consapevole che non c’è altra strada se non coinvolgere anche le multinazionali del petrolio nella lotta climatica.

Shell però ha annunciato di voler ricorrere in appello contro la sentenza. Vi aspettano altri anni di dispute legali?

Nel nostro sistema giudiziario, l’appello non rimanda gli effetti di una sentenza. Anche se Shell ricorre in appello è tenuta ad attuare le prescrizioni. E se non lo fa, noi abbiamo il diritto di rivolgerci alla corte per chiedere un risarcimento. È un grosso rischio per Shell, finanziario e reputazionale. La nostra strategia è stata sempre giocata su due fronti: quello giudiziario e quello del dibattito pubblico. In questi anno abbiamo cercato in ogni modo di stimolare il la discussione e il dialogo sulla questione climatica e questo ha esercitato su Shell una forte pressione.