A dodici anni dal film d’esordio Tiny Furniture, Lena Dunham torna alla regia del lungometraggio. E c’è grande giustezza poetica nel titolo del nuovo lavoro, – letteralmente, bastoncino appuntito – dato il modo in cui la sua prima proiezione, sabato sera, ha perforato la bolla di compiacenza e conformismo culturale che caratterizza gran parte della fiction vista al festival finora. Scritto e diretto, a sorpresa e di corsa, quando il Covid ha fermato la lavorazione di un altro progetto che lei stava girando in Inghilterra, Sharp Stick è ambientato sulle colline di Los Angeles ed è la storia di una vergine ventiseienne.

DUNHAM, che oggi ha trentacinque anni, ha ritagliato per sé solo un piccolo ruolo, quello di una moglie incinta e tradita. Ma se il film è meno letteralmente autobiografico di Tiny Furniture (girato nel loft dei genitori, con sua madre, l’artista Laurie Simmons, e sua sorella), come sempre quando si tratta di questa sceneggiatrice/regista, la materia scaturisce dall’esperienza personale, e dalle domande che si accavallano nel suo costante incontro/scontro con il mondo che la circonda. I personaggi che Dunham ha incarnato sullo schermo – la Aura di Tiny Furniture, e Hannah, nella serie HBO Girls – hanno una qualità quasi picaresca – un misto di intrepidità della mente, schiettezza del desiderio (non solo fisico) e spericolata frontalità da cui scaturiscono equazioni e corti circuiti «scomodi». Come «scomoda» è stata spesso giudicata la fisicità di Hannah, quella sua propensione ad apparire nuda, essere indomita alle umiliazioni (molto Jackass), o lasciarsi maltrattare da Adam (Adam Driver); persino il modo in cui entrava in una stanza, in una conversazione e, in ultimo, nel fotogramma.

QUELLA STESSA qualità picaresca del personaggio centrale, insieme alla «scomodità», sono parte del fascino di Sharp Stick. E probabilmente la ragione per cui più di un critico Usa si è sentito in dovere di stroncare il film. Nonostante una madre sposata più volte (Jennifer Jason Leigh – una scelta perfetta) e una sorella adottiva aspirante influencer (Taylour Paige, la protagonista di Zola), con le quali ha un ottimo rapporto, Sara Jo è una ventiseienne incredibilmente naïve, specialmente in fatto di sesso; forse anche per via della rossa cicatrice che attraversa il suo bacino, conseguenza di un’isterectomia (intervento subito anche da Dunham qualche anno fa, e di cui ha scritto).
Lo scopre (il sesso) per caso, e con irruenza (è lei a iniziare il tutto), con il padre del bambino Down a cui fa da baby sitter (Josh Bernthal). Lui fantastica già di dove scapperanno insieme, quando la moglie (Dunham), a minuti dal parto, scopre tutto per via di una catenina, e mette fine al romance illegittimo. Convinta che lui l’abbia lasciata perché era troppo inesperta a letto, Sara Jo, decide di documentarsi, prima sui siti porno e poi invitando degli sconosciuti a casa per mettere in atto le lezioni, che elenca in una lista appesa al muro. L’educazione fisico/sentimentale si evolve in una corrispondenza con una star del porno, interpretato da Scott Speedman, e in una sorta di lieto fine. Dunham ha una scrittura esperta, molto precisa, che contrasta in modo ideale con la confusione delle mente da cui spesso scaturiscono le avventure dei suoi personaggi.
È una scrittura sensibile ai tempi comici della screwball, che è riflessa anche nella sua mise en scene discreta (Steven Soderbergh, un grande conoscitore di cinema classico hollywoodiano, era il produttore di Girls, di cui lei ha diretto molti episodi), e nell’uso vivace del colore, che accompagna dolcemente le iperboli senza andarci troppo pesante. Ridicolo, doloroso, ingarbugliato e limpido allo stesso, Sharp Stick è un oggetto curiosamente saggio e commovente.