Una donna in nero si guarda attorno, sola, al centro della scena, sulle note di un pianoforte. Si muove nel buio rischiarato da piccole luci. Di corsa entrano altri danzatori. La musica cambia registro, sciabola per lo spazio, diventa battente, seduttiva. La donna al centro è quasi travolta dagli altri, ma è questione di poco. Il moto della danza da solitario e caotico diventa armonico, circolare, collettivo. I danzatori ruotano su se stessi come fossero dervisci per poi dare il via a una magnetica coreografia di contatto che trasformerà la scena in un’utopia sociale di condivisione. È la visione che consegna al pubblico All Ways, catartico spettacolo firmato dal coreografo israeliano Sharon Fridman su musica originale di Danski-Idan Shimoni, uno degli hit di Operaestate Festival Veneto38, in scena al Teatro Remondini di Bassano del Grappa dopo il debutto italiano a Vignale Monferrato Festival. Un titolo nato nel 2016 per festeggiare i dieci anni di fondazione della Compañia Sharon Fridman a Madrid, un lavoro che usa l’intreccio coreografico dei corpi per parlare alla gente degli incontri umani come possibilità di rinascita.
Classe 1980, alle spalle una carriera di danzatore professionista partita a 19 anni a Tel Aviv con la Tadmor Dance Company, Fridman ha iniziato a fare coreografia a 20. Un talento che lo ha visto tra gli autori prescelti nel 2008 da Wayne McGregor per il progetto Dance Lines tenutosi alla Royal Opera House di Londra, vincere nel 2012 a Cuba il Premio Alicia Alonso, fondare e dirigere con successo la Compañia Sharon Fridman, guidare numerosi progetti di comunità con amatori.

Sharon, non è la prima volta che lei viene a Bassano. Nel 2015 coinvolse cento danzatori e trecento coristi nel progetto «In memoriam» per il centenario del primo conflitto mondiale…
Il progetto del 2015, come altri miei, si legava al “rizoma”, concetto biologico e filosofico di rinascita in situazioni di difficoltà a cui ho dedicato anche un lavoro con la mia compagnia. La danza di comunità con le persone del luogo, non professionisti, è fondamentale nella mia visione. Si crea un ponte tra la scena e la platea, si dà la possibilità alle persone di sentire nel corpo cosa significa mettersi in contatto gli uni con gli altri per trovare nuove relazioni. A Bassano conosco molte persone ormai: si è creata una comunità. Per questo in una scena di All Ways ho coinvolto sette donne incontrate precedentemente qui. Non lo faccio in ogni replica, ma solo in quei luoghi dove si è creata tra me e la gente un rapporto attraverso la danza.

Tra il 7 e l’11 agosto lei proporrà un evento di comunità legato al conflitto mondiale anche al Festival Oriente Occidente di Rovereto, «A piedi nudi. 100 anni dalla fine della grande guerra»…

Sì, coinvolgerà sessanta persone, trenta uomini e trenta donne. Tutti non professionisti, salvo una danzatrice solista della mia compagnia, Melania Olcina. Il tema su cui lavoriamo è la figura della donna, la trasformazione che ha dovuto subire a causa della guerra, la perdita dei propri mariti, figli, il dolore come punto di partenza per ricostruire una nuova società.

Sharon Fridman

Il suo inizio nella danza è partito dalle danze popolari, quando era un bambino. Ha influito quell’esperienza nel suo modo di lavorare oggi?
Invitare qualcuno a danzare, dargli la mano è aprire le porte all’altro, è permettergli di entrare nella tua cultura. La danza folk, popolare, che fa parte del mio background, è qualcosa che trasformo in un concetto: parlo del potenziale che abbiamo come società di usare il passato per costruire un nuovo futuro.

Lei vive e lavora a Madrid. La sua ricerca sulla comunità ha a che fare con le sue origini israeliane?

Le mie origini sono a Tel Aviv. È un posto che amo, il migliore al mondo perché è la mia casa, ma lo odio allo stesso tempo. La situazione politica del mio paese è davvero difficile, non posso andare a casa e chiudere gli occhi di fronte a quello che accade. Ho fatto il soldato, ho combattuto, oggi sono un attivista. Ho con Israele un rapporto conflittuale, vorrei fare qualcosa per rendere il mio paese differente. Le mie danze di comunità esistono perché credo in generale nel valore di un’esperienza di condivisione, non mi sento un coreografo con le stigmate del coreografo israeliano».

La rivedremo nella stagione del Comunale di Ferrara in novembre per un progetto con la compagnia italiana Collettivo CineticO di Francesca Pennini.

Il pezzo si intitolerà Dialogo primo, lo firmo su di loro e con loro. Non lavorano sul contact come me, ma sono una famiglia e mi piacciono moltissimo. La comunicazione tra noi è profonda. Per ora abbiamo lavorato sulla tecnica, poi ci occuperemo della composizione. Riprenderemo a lavorare a settembre, vedremo cosa ne uscirà, ma certo è che sono innamorato di come sta andando il processo.