La sharing economy è diventata il simbolo di un modello d’affari anziché del movimento della condivisione delle origini. Piattaforme come Airbnb o Uber sono fondi finanziari sostenuti da capitali di rischio che puntano a massimizzare i profitti attraverso lo scambio di case, auto, tempo, competenze e servizi.

Il passaggio di paradigma è raccontato da Shareable! L’economica della condivisione (Edizioni di Comunità/CheFare, pp.170, euro 14), un’antologia di articoli pubblicati scritti tra il 2013 e il 2017 dal giornale online Shareable, uno dei riferimenti del dibattito sulla sharing economy. Il libro, curato da Guido Smorto e Tiziano Bonini, sarà presentato lunedì 6 novembre alla fondazione Feltrinelli in Viale Pasubio, 5 a Milano (dalle 10,30) in occasione di una discussione sulla risoluzione del parlamento europeo sulla sharing economy con i curatori e Ivana Pais (Università Cattolica), l’europarlamentare Nicola Danti e il segretario della fondazione Massimiliano Tarantino.

“La sharing economy commerciale ha incorporato preesistenti pratiche collaborative non orientate al profitto – scrivono Smorto e Bonini – e le ha trasformate in servizi a pagamento in cui il valore estratto dalle aziende, attraverso la pernceutale che prendono sul servizio offerto, non viene reinvestito sul territorio, né ritorna attraverso le tasse che vengono perlopiù eluse”.

La solidarietà, la cooperazione, l’innovazione sono state messe al lavoro in una rental economy, un’economia basata sull’affitto dei beni e sulla fornitura dei servizi attraverso piattaforme tecnologiche proprietarie. È quella che Marx avrebbe chiamato “sussunzione capitalistica” e che qui viene definita “cooptazione”.

La precisazione è dirimente perché anche in questo libro è identificata una facoltà – la forza lavoro – e un’attitudine – sociale e cooperativa – differenti dallo sfruttamento o dalla mercificazione pura e semplice. Questa differenza tra un’economia che funziona per la collettività e un’altra che produce profitti per i proprietari delle piattaforme permette di concepire la possibilità di un uso diverso anche della sharing economy. Possibilità oggi distorta in maniera sistematica e confusa con il suo opposto. Lo attesta la difficoltà di definire chiaramente la stessa categoria.

TaskRabbit, un sito dove si affittano “lavoretti” di ogni tipo è in realtà un’organizzazione capitalista del lavoro domestico; Lyft offre passaggi in auto tra privati ma è anche un fondo dove Google-Alphabet ha investito centinaia di milioni di dollari per fare concorrenza a Uber. Il motore di queste aziende – tra le prime quotate a Wall Street – è alimentato dalle persone che lavorano gratis per Facebook, cercano lavoro o un reddito in maniera fino a poco tempo fa impensabile.

“Un’alternativa alla cooptazione – scrive Juliet Schor – è che le piattaforme di condivisione diventino parte di un movimento più ampio che provi a distribuire la ricchezza e promuovere la partecipazione e la salvaguardia dei rapporti sociali”. In questa direzione si muove anche Michael Bawens, teorico del movimento peer-to-peer e fondatore della P2P foundation. Il cuore del ragionamento è lo stesso della teoria giuridica sui beni comuni o quella politica sul “comune”. I commons, ovvero la produzione di valore irriducibile allo scambio capitalistico, sono la leva dell’accumulazione colossale di ricchezza del capitalismo digitale. Il problema politico è come tornare in possesso di una simile capacità di produzione, molto spesso ignota agli stessi soggetti che la possiedono.

Nel libro si sostiene l’alternativa delle “piattaforme cooperative” che combinano il modello socio-imprenditoriale cooperativo con le piattaforme online e no profit. Fairmondo, ad esempio, la versione cooperativa di eBay; Stocksy, un sito di foto d’archivio dove i fotografi sono i proprietari; Juno, un’azienda di ride sharing che sfida Uber o l’olandese Peerby dedicata alla condivisione di beni tra vicini di casa.

Il bilancio di queste esperienze non è ancora soddisfacente, ma non è detto che il loro successo vada giudicato in base al valore finanziario o al successo mediatico. Il loro valore consiste nel creare nuove modalità produttive e distributive, oltre che di creazione di reti autonome e mutualistiche che sappiano influire sul governo dei territori, sull’opinione pubblica, sull’organizzazione del lavoro e della distribuzione dei prodotti.

L’alternativa è politica e dipende interamente da noi, prigionieri dei signori del silicio.