Fuori dal padiglione della Thailandia, durante l’Expo a Shanghai nel 2010, c’erano sempre centinaia, se non talvolta, migliaia di persone. Erano di fronte al «mistero thailandese» le file più lunghe, con i visitatori in attesa di entrare nell’immenso padiglione; ore ad aspettare sotto il sole soffocante di Shanghai; un sole che già cuoceva di suo e che raddoppiava il suo effetto rimbalzando sull’asfalto e su un tratto di mondo non coperto da nulla. La ragione di questa attesa spasmodica? Si diceva che dentro, nella sala del cinema, la Thailandia offrisse addirittura la visione di un film in «4D». Non solo il «3D» che ormai si stava affermando in tutte le mega sale cinematografiche cinesi (siamo nel 2010), ma addirittura il «4D»!

Di cosa si trattava? Di una bella trovata, divertente, poco scientifica, ma simpatica. Durante il film, di durata breve, non più di 10 minuti, si potevano vivere scossoni sulla sedia, che improvvisamente tremava, si era colpiti da spruzzetti d’acqua, eccetera. Un’esperienza minima, per quanto sufficiente a tenerti dentro al padiglione, passando infine a ritirare il timbro sul «passaporto dell’Expo», una trovata cinese per dare vita a gare su quanti padiglioni si fossero visitati (e fuori dall’Expo quei passaporti si potevano comprare completi). Il padiglione thailandese non era naturalmente l’unica attrattiva dell’Expo made in China. C’era anche quello inglese che riscuoteva parecchio successo.

Si trattava di una struttura quasi illusoria nella sua forma esteriore, che fin dai giorni precedenti all’apertura dell’esposizione aveva riscosso già parecchie attenzioni. Era tra i più fotografati. Ma i cinesi, anche in quel caso dopo ore di estenuante coda, uscivano molto delusi dal padiglione del Regno Unito. Da fuori era considerato e sarebbe stato considerato anche dopo, stupendo, ma dentro: una delusione. Nell’atrio della struttura, molto più piccolo di quanto ci si potesse aspettare da fuori, c’erano delle teche con tanti piccoli semi di piante, fiori, frutti. «Noi volevamo farci la foto con la Regina!» esclamavano alcuni cinesi, insofferenti alla volontà britannica di offrire soluzioni e spunti al «tema» dell’Expo.

Gli europei ospiti di quell’esposizione shanghaiese, invece, andavano cercando il padiglione della Corea del Nord, molto più forte nella sua capacità di attirare europei che asiatici. Gli asiatici, al contrario, erano tutti verso Francia, Italia, Germania. Nel padiglione italiano, ad esempio, il caffè era migliore in assoluto e sembravano saperlo tutti. Al mattino entrarci era un incubo. In quello francese, i cinesi potevano sposarsi, sfruttando gli sfondi parigini. L’Expo di Shanghai del 2010 in Cina rappresenta un record: 73 milioni di visitatori nei sei mesi di vita, più di Osaka nel 1970, record dei record ai danni dei giapponesi.

Non mancarono polemiche riguardo questi numeri. Bastava starci a Shanghai, per accorgersi delle tante comitive giunte da ogni parte del paese: si distinguevano per i cappellini o gli ombrelli. Giravano, erano ovunque, tra i padiglioni, nei ristoranti, nei bar, nelle sale conferenze e in giro per la città. E tutti, si diceva, arrivavano gratis, con i biglietti regalati dalle amministrazioni locali, a loro volta «spinte» dal governo centrale. L’Expo di Shanghai concludeva un biennio storico per la Cina: nel 2008 le Olimpiadi e poi la grande esposizione universale, che per Pechino rappresentava la «propria» esposizione di fronte al resto del mondo. Non a caso, dietro la macchina organizzativa dei due eventi, si testavano i futuri leader. Xi Jinping, ad esempio.

Il tema dell’Expo di Shanghai era «Better city, better Life», con 192 paesi espositori e 50 organizzazioni internazionali presenti. I temi dei padiglioni rincorrevano quell’idea, proponendo soluzioni ecologiche, ecocompatibili, smart, tecnologiche, eccetera. Alcune idee erano molto buone, alcuni padiglioni erano autosufficienti in termini energetici, virtuosi per il materiale con cui erano stati costruiti.

Uno dei protagonisti dell’Expo fu Simon Velez, architetto colombiano, arrivato a Shanghai perché ideatore e designer del padiglione indiano, che utilizzava il suo elemento preferito, il bambù. La sua architettura era definita «vegetariana», una specificità, forse, che potrebbe anche funzionare con l’Expo milanese. Cosa rimane oggi di quell’evento a Shanghai? Poco nella memoria, qualche padiglione adibito a spazio congressi e poca curiosità, forse, dei cinesi rispetto a quello del 2015 milanese, già criticato in patria per ritardi e scandali. Gli expo ottimisti si aspettano molto dai cinesi. O meglio, si aspettano molti cinesi: pare due milioni.