A essere cinici, Crock of Gold: a Few Rounds with Shane MacGowan, il documentario di Julian Temple dedicato al leggendario leader dei Pogues, potrebbe essere definito come il riassunto di cinquant’anni di sbornie colossali. Anno più anno meno, è quello il periodo in cui il musicista anglo-irlandese ha pericolosamente dato del tu alla bottiglia (e a sostanze di vario tipo). Ciò non gli ha impedito di fondare un gruppo dalla connotazione unica, autore di musica folk irlandese con un approccio risolutamente punk. In altre parole musica tradizionale suonata a mille all’ora: è il marchio di fabbrica dei Pogues, che li ha portati ad essere nell’olimpo punk appena un gradino sotto a Sex Pistols e Clash. Al vigore e alle provocazioni che sprigionano da canzoni tradizionali reinterpretate al fulmicotone, il gruppo deve la sua fama anche a live trascinanti, resi torridi da un frontman dalle orecchie a sventola ma soprattutto dalla peggior dentatura che si possa immaginare (cinque anni fa il canale britannico Sky Art trasmise un documentario sui leggendari denti rotti, Shane MacGowan: a Wreck Reborn). Personaggio quasi indescrivibile, bravo autore e interprete del tutto in preda a se stesso, Shane MacGowan partiva da ballate con fisarmonica e banjo e si trasfigurava dentro ritmiche saltellanti e pazzerellone cui dava benzina con litri di alcol trangugiati prima, durante e dopo le performance sul palco.

LIVE DIROMPENTI
La forza dirompente delle esibizioni dal vivo è largamente riportata in Crock of Gold. La pellicola ripercorre tutta la carriera del leader dei Pogues, culminando nel 2017 con il 60° compleanno del musicista, occasione in cui vip, star del cinema e leggende del rock si sono riuniti per lui. E alcuni dei presenti all’evento celebrativo siedono uno alla volta davanti a Shane per parlare con lui, in una sorta di match-intervista da cui il richiamo ai «round» nel titolo. Il documentario è stato presentato lo scorso settembre al San Sebastian Film Festival, dove ha vinto il premio speciale della giuria. A dicembre è uscito nelle sale Usa, inglesi e irlandesi ed è reperibile in dvd e in streaming. Crock of Gold è co-prodotto da Johnny Depp, che nella pellicola gioca anche il ruolo di amico-intervistatore. «Ho incontrato Shane per la prima volta – ha raccontato l’attore in un’intervista a Les Inrockuptibles – in uno studio di registrazione che somigliava molto a un pub. Da una parte aveva una chitarra, dall’altra una montagna di birre, non ho capito una parola di quello che biascicava e ho pensato anche di non piacergli affatto. Però ho sentito subito il battito del suo cuore e ho capito che è un poeta, anche se lui non vuole essere chiamato così. Questo film è una lettera d’amore a un vecchio amico».
La dichiarata ammirazione di Depp e delle altre celebrità per il cantante anglo-irlandese non cade nell’indulgenza, anche perché Julian Temple è come al solito bravo a restare in perfetto equilibrio tra la mitologia dell’artista maledetto e il solido reportage biografico. Il risultato è un documentario ricco di informazioni utili anche a contestualizzare il periodo di massimo fulgore dei Pogues, dal 1985 (anno di uscita del capolavoro Rum, Sodomy & the Lash, prodotto da Elvis Costello) ai primissimi anni Novanta. Lo stile tipico di Temple – stratificare interviste contemporanee su materiale d’archivio per creare un denso collage di musica e commenti – ben si adatta a una bestia da palcoscenico come MacGowan, sul palco una palla di fuoco puro concentrato di poesia e volgarità, una forza della natura che ha rivitalizzato la musica tradizionale irlandese con energia e umorismo scabroso. Da questo punto di vista il vertice lo raggiunse nel 1987 la canzone A Fairytale of New York, tormentone natalizio in apparenza all’insegna dei buoni sentimenti ma che, in realtà, nel testo descrive uno scambio d’insulti, pure abbastanza pesanti, tra due fidanzati.

BULLIZZATO
Dopo gli spezzoni in cui Shane MacGowan è raccontato in tutta l’etilica potenza del passato, è uno shock quando Temple rivela l’attuale stato di prostrazione del cantante, costretto su una sedia a rotelle da quando nel 2015 si è rotto il bacino per una caduta. Nelle immagini recenti l’artista insiste sul fatto che sta guarendo e spera di scrivere presto altre canzoni. Ma decenni di alcolismo, abusi di droghe ed esaurimento nervoso con tutta probabilità hanno causato danni irreparabili. Il vivace stile narrativo del regista inglese è comunque in grado di stemperare i momenti più oscuri della storia. In questo aiuta molto il colorato vissuto di MacGowan, a cominciare dai ricordi sulle vacanze che il musicista trascorreva nella fattoria dei nonni a Tipperary (spassosissimo il racconto di quando si presentò completamente ubriaco a catechismo o il ritratto delle due zie alcoliste). Il legame con l’Irlanda è fortissimo, tanto da fargli dire «I did what I did for Ireland» (ho fatto quello che ho fatto per l’Irlanda) a proposito delle sue proverbiali intemperanze verbali contro la corona inglese durante i concerti. Più che per amor di patria, MacGowan idealizza l’Irlanda perché vittima del razzismo che molti britannici nutrono verso gli irlandesi. Cresciuto in Inghilterra dove l’avevano portato i genitori immigrati in cerca di lavoro, Shane è stato bullizzato dai coetanei in quanto irlandese e nel documentario non nasconde l’approvazione entusiasta delle azioni dell’Ira: «Mi vergognavo di non avere fegato a sufficienza per unirmi a loro» dice a un certo punto.
Il film è pervaso da un senso di melanconia perché è fuor di dubbio che i giorni migliori dell’artista sembrano per sempre alle sue spalle. Il pensiero della morte impregna tutto Crock of Gold, e non solo perché MacGowan l’ha sfidata in modo troppo sfacciato con anni di abuso di alcool e droga. All’inizio Shane rivela la sua preoccupazione per fantasmi dei suoi parenti morti che lo tornano di tanto in tanto a visitare (e che l’hanno spinto a un ritorno al cattolicesimo). E l’angoscia per le vittime della grande carestia irlandese, le cui ossa dice di aver riportato accidentalmente alla luce su una spiaggia della contea di Mayo. Questi sprazzi tenebrosi fanno da contrappunto alla tendenza, da parte di alcuni degli intervenuti nel documentario, a santificare MacGowan come una sorta di angelo caduto. Ma sono solo attimi che sfumano nel pogo a rotta di collo che è stata la vita del cantante dei Pogues.