«Vedo che c’è una giustizia che va avanti e si deve fare luce fino in fondo. Sono arrivate condanne importanti, ci sarà l’appello, lo aspettiamo, ma va fatta chiarezza su una pagina brutta della nostra storia». Il presidente della Camera Roberto Fico forse si riferisce anche ai mandanti, a chi nel maggio 2013 diede l’ordine di sequestrare e di espellere dal nostro Paese Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, e sua figlia Aula che allora aveva sei anni. Bisogna fare chiarezza, perché la condanna a cinque anni di reclusione con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici inflitta all’ex capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, ora questore di Palermo, e all’ex responsabile dell’ufficio immigrazione, Maurizio Improta, attualmente a capo della Polizia ferroviaria, seppur più severa di quella chiesta dal pm Massimo Casucci (due anni e quattro mesi), si ferma però solo agli ultimi anelli della catena di comando che inviò decine di poliziotti italiani ad eseguire un vero e proprio sequestro di persona.

Tale infatti lo ha ritenuto il tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci che, insieme ai due alti dirigenti, ha condannato alla medesima pena anche i funzionari della squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e gli agenti dell’Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma (quattro anni di carcere) e Stefano Leoni (tre anni e sei mesi). L’unica ad essere assolta dall’accusa di sequestro di persona è stata il giudice di pace che autorizzò il rimpatrio, Stefania Lavore, condannata per falso a due anni e sei mesi.

«Sono colpita dall’indipendenza della giustizia italiana, nel mio Paese non sarebbe andata così», ha commentato Shalabayeva che vive ancora a Roma. Il suo avvocato Astolfo Di Amato però fa notare che quegli agenti non avevano alcun interesse diretto, mentre nulla si sa su chi ha ordinato quel sequestro. Quella notte del 28 maggio 2013 Shalabayeva fu svegliata nella sua abitazione di Casal Palocco. «C’era gente che bussava alle finestre e alle porte – ha raccontato più volte la moglie di Ablyazov che nel frattempo ha ottenuto l’asilo politico in Francia – Quando aprii mi diedero una spinta e circa 30 – 35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati». La prelevarono, insultandola, malgrado mostrasse loro un regolare passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana e la portarono a Ponte Galeria da cui fu poi imbarcata su un aereo privato che la riportò in Kazakistan.

Un tale scempio di diritti umani però non basta a giudicare colpevoli (solo?) gli imputati, secondo il segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia, Enzo Letizia, che si è detto «amareggiato» dalla condanna. «Confidiamo in una diversa interpretazione dei fatti in appello», ha dichiarato. Perché, dice, «si rafforza l’amara consapevolezza che a fronte di scenari internazionali di straordinaria complessità l’intero fardello delle responsabilità ricada su chi ha il compito di agire sul campo».