Immaginate William Shakespeare che va a Hollywood. Cosa potrebbe accadere? Si tratterà di uno scontro tra la cosiddetta «cultura alta» e quella commerciale? Una lotta del poeta inglese più celebrato contro i soldi sporchi dello spettacolo? L’artista geniale sarà distrutto dalla macchina industriale dei sogni? No. William Shakespeare a Hollywood si troverebbe proprio bene. Naturalmente, il suo agente avrebbe qualcosa da ridire sul trasloco: «Ma William, là non ci sono storie originali. Tutto è stato fatto e rifatto mille volte». «Va benissimo», gli risponderebbe Shakespeare: «anch’io rubo quasi tutto. Da Holinshed per i drammi storici, da Plutarco per quelli classici romani, e anche dai romanzieri italiani ora dimenticati per le mie commedie, e non do a nessuno alcun credito». «Però William, lì si trovano solo sequel e franchise … » «Meglio ancora», risponderebbe il bardo: «sono stato io a iniziare ad usare i numeri romani; prima di Rocky II, c’erano Riccardo II, Riccardo III. Hunger Games: il canto della rivolta parte 2? Io ho fatto Enrico IV parte 2 quattrocento anni fa. E l’idea degli spin-off che prende un personaggio popolare per farne un film ‘stand alone’? «Già fatto! Quando la gente impazziva per la mia creatura comica, Falstaff, io scrissi un dramma tutto suo: Le allegre comari di Windsor». E così Shakespeare va a Hollywood e oggi lavora per la Marvel con qualche serie televisiva in fase di svilluppo per HBO.
E Hollywood ricambia l’affetto, ma non solo. Secondo il Guinness libro dei primati William Shakespeare è l’autore più adattato nella storia del cinema. Dai classici del cinema muto ad oggi ci sono state più di quattrocento versioni delle opere Shakespeariane sugli schermi grandi e piccoli, iniziando proprio nell’anno 1900 con un Amleto francese e la famosa attrice Sarah Bernhardt. Akira Kurosawa ha creato forse i due adattamenti più ammirati con il suo Trono di Sangue, un matrimonio sanguinoso fra la tragedia brutale di Macbeth e l’antica tradizione teatrale giapponese ‘No’; e Ran, bellissima versione jidaejeki di Re Lear ambientata nel Giappone feudale. Non essere strangolati dai versi in lingua originale è un vantaggio. Le versioni in lingua originale devono sempre avere il coraggio di tagliare parole e discorsi scritti dall’autore più famoso della letteratura inglese. Abbiamo avuto il campione della tradizione teatrale inglese, Laurence Olivier che ha vinto la seconda guerra mondiale con l’Enrico V nel 1944 e poi l’Oscar con il suo Amleto nel 1948. Il suo figlio d’arte Kenneth Branagh ha tentato di esorcizzare il fantasma di suo «padre» con la sua versione di entrambe le opere, poi con altre tre da regista e altre ancora come attore soltanto. Il suo Amleto del 1996 ha temerariamente fatto vedere una versione integrale, anche se rimane il dubbio che Shakespeare stesso abbia mai vista una versione completa sul palcoscenico durante la sua stessa vita – ‘le due ore di traffico sul palcoscenico’ a cui si riferisce il Prologo di Romeo e Giulietta non sono un caso, e la versione di Branagh raddoppia questo numero aggiungendo perfino qualche minuto in più. Branagh non è stato il primo né sarà l’ultimo a farsi travolgere dalla passione per la lingua di Shakespeare. Ne L’ultima tempesta di Peter Greenaway John Gielgud – forse l’attore teatrale classico più noto della storia – recita Prospero ma recita anche quasi tutti gli altri ruoli, un mago innamorato della sua stessa voce che trasforma il mondo intero in un monologo. Greenaway appartiene all’ala più sperimentale del cinema britannico – Derek Jarman ha realizzato anche una versione punk della Tempesta – ma Shakespeare è spesso la fonte per un cinema di prestigio come i film di Branagh, Il mercante di Venezia di Michael Radford o le versioni firmate da Franco Zeffirelli che vede le opere come artefatti di lusso, tessuti ricchi e splendenti, con una star o due ad affollare la scena, e rispettoso al punto da essere fatto quasi apposta per gli studenti di liceo. L’esempio più estremo lo troviamo nella nuova versione di Romeo e Giulietta dal creatore di Downton Abbey, che ha preso in prestito il fascino ma senza la fatica della parola shakespeariana.
Torniamo invece ad Hollywood dove Shakespeare viene preso un po’ meno con le pinze. C’è sempre stato un senso di liberazione nei confronti di Shakespeare – da quando Il sogno di una notte di mezz’estate mostrava James Cagney nel ruolo di Bottom, o dal magnifico Marc Antony di Marlon Brando nel Giulio Cesare o la versione di fantascienza della Tempesta, Il pianeta Proibito. Il regista americano più riuscito, più shakespeariano fu il maverick Orson Welles con Macbeth, Otello e il suo capolavoro Falstaff, in cui diverse opere vennero tagliate e ricucite insieme in una confezione magnifica. Due anni prima della maratona di Amleto firmata Branagh, Disney ne fece una versione più simpatica ed intensa con il Re Leone. Anche nel 1996, Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann uscì nelle sale come una ventata di aria fresca, una versione che guardava dall’altra parte, giovane, piena di sesso e droga, un cuore che batte ad un ritmo fra il pentametro giambico e l’ Hip-Hop, il testo ridotto all’ essenziale e la giovane e sfavillante bellezza di Claire Danes e Leonardo di Caprio.
L’innamoramento di Hollywood nei confronti del Bardo inglese è più forte che mai. Le nuove versioni di classici, come il Macbeth dell’ australiano Justin Kurzel, o di opere meno conosciute, come il Coriolano di Ralph Fiennes e il Cimbelino di Michael Almereyda, regista di Amleto 2000 di qualche anno fa ne sono la prova. Joss Whedon vuole realizzare un film veloce tra un Avengers e un altro – e cosa fa? Gira Much ado about nothing in un paio di settimane. Il showrunner di Buffy e il regista preferito della Marvel trova in Shakespeare un collega, un contemporaneo.