Franco Marenco ha terminato valorosamente l’ardua impresa di darci tutto Shakespeare in italiano, quattro corposi volumi di circa tremila pagine l’uno: I Le Tragedie, II Le Commedie, III I Drammi storici, e ora il IV volume, Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasionali (Bompiani «Classici della letteratura europea», pp. XLV-2761, euro 50,00). Il testo inglese tradotto è quello curato da John Jowett, Gary Taylor, William Montgomery e Stanley Wells per la Oxford University Press (Shakespeare, The Complete Works, Second Edition, 2005), aggiornato e completo. Dopo varie traversie editoriali, finalmente Bompiani si fece carico della pubblicazione, che è proceduta ordinatamente dal 2014 a quest’anno, in cui è uscito appunto l’ultimo volume, quello di più difficile composizione che raccoglie i primi poemetti giovanili, le tragicommedie e i sonetti.
Capitan Marenco – se mi è permesso di chiamarlo così per la sua conradiana fermezza – ha avuto al suo comando una ciurma scelta di traduttori che sono stati anche critici e filologi e lo hanno bravamente assecondato nella conduzione delle quattro (pesanti!) caravelle, ricompensati solo dalla gloria dell’impresa. Quindi apparati critici, note e varianti, bibliografia in grande maggioranza in lingua inglese. Gli studi shakespeariani si muovono a livello globale, da convegno a convegno, da casa editrice a casa editrice, secondo una agenda spesso concertata a livello internazionale. In Italia, dopo la ricca stagione di semiotica teatrale (Melchiori, Serpieri…) non resta che tradurre i sacri testi, commentarli, farli rivivere in teatro, sperimentare strategie ermeneutiche nuove e nuovi temi.
Nuove traduzioni, più fluide
Premessa l’ottima qualità del lavoro dei traduttori, preoccupati di sveltire lo Shakespeare italiano, renderlo fluido e comprensibile, il più operoso – a eccezione di Marenco – mi sembra sia stato Masolino d’Amico che firma ben quattro delle grandi tragedie nel primo volume e una nell’ultimo. D’Amico è un traduttore cool, conosce il tempo giusto della battuta adatta all’attore italiano. Luca Manini nel quarto volume getta la rete incantatoria del suo elegante italiano su sei testi poetici di piega barocca. «Col respiro giocavano i fili d’oro dei capelli, / modesti e lascivi: oh, lascivamente modesti! / In un’effigie di morte mostrano il trionfo della vita / e, nella mortalità della vita, il viso opaco della morte» (Lucrezia violata). Massimiliano Palmese ha fatto un’ardita traduzione dei Sonetti, cadenzata sul ritmo dell’inglese, netto e forte: una pena soffocata e sorda o un’euforia falsa e straziante. «Tu sei per me come alla vita il pane, / come alla terra acqua di primavere; / quella tensione porto, per tuo bene, / che sopporta un avaro col suo avere; / fiero e appagato delle cose sue, / ora scruta se il mondo gliele strappa; / ora penso sia meglio essere in due, / ora voglio che tutto il mondo sappia; / e, mentre nei tuoi occhi sto al banchetto, / già di uno sguardo mi sento affamato, / né avendo né cercando altro diletto / di quello che ho da avere o già m’ hai dato. / Un giorno sazio, un giorno poi mi strugge, / a volte ho tutto, a volte tutto fugge» (son. 75).
L’opera poetica di Shakespeare – a differenza di quella teatrale – mostra una stretta continuità tematica ed emotiva: amore e morte, mito e vita. I denti crudeli degli ultimi sonetti addentano la morbida coda dei poemetti iniziali Venere e Adone, Lucrezia violata, formando il fantastico intreccio dell’uroburo, un serpente che si morde la coda. Polpa di gusto alessandrino al primo assaggio, lascia un retrogusto licenzioso e sadico. Così se negli ultimi sonetti amore è piaga maligna del corpo e della mente, delirio incurabile del non-amato, nei primi invece commuove l’affanno, lo sforzo quasi fisico di trattenere quel corpo desiderato, forse mai posseduto, con promesse, lodi, consigli; quasi un padre verso il figlio. Ma già nel 1595 sir Philip Sidney, uomo di mondo, consigliava di diffidare dell’immortalità promessa dai poeti nei loro versi: «sarete più belli, più ricchi, più saggi, più tutto, dimorerete nei superlativi» (cito dalla ricca introduzione ai Sonetti di Camilla Caporicci).
La distinzione tra poeta e drammaturgo è fortemente sottolineata da Marenco nel saggio introduttivo «Un autore, due mestieri», Shakespeare e il suo doppio mestiere, due diverse «tradizioni di riferimento» e due diverse «prospettive di successo»: dimorare nei superlativi o dimorare negli incassi, nella cultura alta o nel teatro popolare, nelle grandi strutture drammaturgiche neo-aristoteliche come ai tempi dei monolitici Tudor o nel Mingle-mangle – nel miscuglio – di un teatro plurale sotto il vacillante scettro di Carlo I Stuart? Era cominciato il travagliato seicento, Il secolo della rivoluzione 1603-1717, titolo del più famoso libro dello storico Christopher Hill. Il vecchio ordine tudoriano, ancora feudale, chiuso, intollerante, giustiziere, tarda a morire; il nuovo prende forma lentamente e non senza ripensamenti e traumatici mutamenti economici e politici che solo nella romanzesca Tempesta era dato immaginare. Questo lungo periodo, a cui è stato dato il nome di «tardo rinascimento» e poi «barocco», viene oggi definito early modern, di «prima modernità», per la promessa di futuro che conteneva.

Pubblico di aristocratici e popolo

Basta dare un’occhiata alle cosiddette fonti di Shakespeare per scoprire che a Londra un’editoria artigianale, i booksellers, stampatori e venditori, offriva di tutto, dai classici greci e latini ai contemporanei italiani, spagnoli, arabi, francesi, subito tradotti. Oltre a una ricca produzione di manuali (The Art of…) per i numerosi artigiani, forse gli stessi che affollavano la platea dei teatri pagando un penny. Marenco, curando Il Mercante di Venezia, ha scoperto che i due personaggi minori di Gobbo padre e Gobbo figlio erano i guardiani del ghetto di Venezia – come lo avrà saputo Shakespeare? Un clown di nome Lancelot (Lancillotto) non sarebbe stato tollerato da quel pubblico acculturato e lo ha emendato in «Lance» (Lancetta). Per accontentare quel pubblico misto di aristocratici e popolo, curioso di novità, prodigi, sorprese, avventure, sogni a occhi aperti, sono state smontate le vecchie regole drammatiche: la commedia non sempre finisce con il matrimonio né la tragedia con la morte del protagonista. Le quattro tragicommedie più che sulle passioni che si incarnavano nel personaggio-eroe, propongono intrecci di problemi intellettuali, culturali, anche teologici, e picchiano duro sui poveri groundlings. Troilo e Cressida rovescia con rabbia il mito classico, l’epopea di Troia: rovinano gli eroi, le donne diventano merce di scambio, sporcato è l’onore della guerra, solo cieca vendetta, la passione romantica è calpestata. Altro testo profondamente problematico è Misura per Misura, in cui la giustizia non attiva ma passiva è data in dono, viene da fuori ( se viene), a dispetto della stringente dialettica politica e morale. «Questi [le quattro tragicommedie, compresa Tutto è bene ciò che finisce bene, ndr] sono testi che pongono e non risolvono problemi, costruzioni “dialettiche” tanto inquietanti quanto coriacee ai fini di un assetto interpretativo…», scrive Caterina Ricciardi che ne ha sciolto la difficile interpretazione. Manca la centralità delle grandi tragedie, assicurata dai maschi sublimi protagonisti nel bene e nel male; si avverte la prevalenza del margine, la prolissa e nervosa affabulazione del secolo stuartiano – per breve tempo anche repubblicano – che si affaccia su un mondo in continua sperimentazione.
La stagione finale del teatro shakespeariano, quella dei drammi romanzeschi, si inizia col Pericle attorno al 1608, quando la compagnia di Shakespeare acquistò un teatro chiuso, il Blackfriars, dove non è probabile che entrassero anche i groudlings. Teatro di corte, teatro illusionistico. Finalmente un’eroina legata all’elemento più instabile, il mare; dunque la fortuna, il viaggio, la tempesta, l’isola, la vita pastorale, la magia. La geografia di Shakespeare è tutta sbagliata, ma come geografia empatica invece ci dice molto: Venezia/Belmonte sono luoghi simbolici come Sicilia/Boemia, Milano/Tunisi che segnalano le opposizioni, i contrasti, i pericoli di cui l’innocente eroina deve fare esperienza; l’incertezza storica ed epistemica di quel secolo è la spiaggia a cui alla fine approderà.