Una nuova traduzione dei Sonetti di Shakespeare merita la nostra gratitudine, essendo impresa quanto mai faticosa, compromesso irrisolto, tentativo di ingraziarsi un lettore felice che avrebbe capito tutto, o quasi. Lucia Folena ha tradotto per Einaudi i Sonetti, con testo inglese a fronte, introduzione e note («NUE nuova serie», pp. XLIV-435, € 32,00), sperando di aver riprodotto, «per quanto possibile, l’effetto che la lettura dell’originale ha su un lettore contemporaneo di madrelingua inglese: il senso di qualcosa di lontano e vicino insieme, dove la messa in scena del sentimento e delle sue imprevedibili variazioni è costantemente controllata in modo visibile – e udibile – dal rigore di una forma sempre uguale a se stessa…». Ma il sonetto shakespeariano è perennemente in posizione dialogica, quindi aggredisce, chiede, ripiega su se stesso, attacca il nemico barocco per eccellenza, il Tempo dalle molteplici personificazioni, macabre, ossessive. A volte il verso iniziale si annuncia con enigmatici vocativi: «Unthrifty loveliness» («o prodigo incanto»), «Music to hear, why hear’ st thou music sadly?» («Perché, o musica, triste ascolti musica?»), o al contrario con squillanti attacchi colloquiali, che è inutile tradurre: «Take all my loves, my love, yea, take them all», «To me, fair friend, you never can be old».
Questi 152 sonetti furono scritti in anni diversi, poi accantonati, infine pubblicati senza l’ autorizzazione dell’autore; il 153 e il 154, di gusto neoclassico (Cupido, ninfe, torce in fiamme…) sembrano un’aggiunta per chiudere il libro ma non il testo, che non ha conclusione se non l’abbandono. Dimenticata la nobile prospettiva rinascimentale, l’insieme appare frammentato, contraddittorio, disturbante. Due sono i muti interlocutori: il Fair Youth e la Dark Lady, ma è anche esibita la precaria esistenza dell’amante, la sua penuria di amore, il lamento e anche la sua improvvisa protervia, l’orgoglio luciferino e blasfemo «I am that I am» (Esodo, 3,14) del sonetto 121. Anche l’amato può scendere da altezze neoplatoniche al quotidiano «my dear boy», «love», «babe», «my rose», fino ad annullarsi in «bianca disperazione».
La pubblicazione dei Sonnets nel 1609, voluta da Thomas Thorpe, passò quasi inosservata nell’anno della peste e della chiusura dei teatri. Shakespeare non intervenne né pro né contro la pubblicazione del suo canzoniere. Il capolavoro del genere, Astrophil and Stella di Philip Sidney, aveva brillato dal 1591, ma la maniera petrarchesca, gli ardenti innamorati e le nobili donzelle, erano ormai sotto il cono d’ombra del drammatico secolo tudoriano – insieme all’italianato Eupheus di John Lyly, agli Amoretti di Edmund Spenser, ai primi madrigalisti italiani e inglesi. Nella famosa Apology for Poetry, Sidney, citando Aristotele, aveva definito mimesis l’arte della poesia: «representing, counterfeiting, or figuring forth, to speak metaphorically, a speaking picture with this end, to teach and delight». Nella sequenza matrimoniale (1-17) dei Sonetti, l’io lirico esorta il giovane bellissimo, avaro di sé, a procreare un figlio ( magari anche dieci!) per lasciare copia della sua perfezione. Lo rimprovera: «Thyself thy foe, to thy sweet self too cruel». Un mezzo più sofisticato, neoplatonico, sarebbe la distillazione di lui che è rosa la cui bellezza mai muore, e malgrado un cattivo inverno quel profumo distillato resterà per sempre come essenza (son. 8). Ancor più dolce se distillato dalle dolci morti di rose dolcissime (son. 54). Non è possibile al pittore fissare quel profumo, solo l’amante poeta potrebbe farlo.
Il Fair Youth è sigillo, garanzia, della bellezza di tutta la natura, del ritorno delle stagioni, della ripetizione e della varietà, dell’eterno rinascere: «Shall I compare thee to a summer Day?» («Devo io compararti a un giorno d’estate?»), «Full many a glorious mornings have I seen» («Molte radiose mattinate ho visto»). Quella rosa archetipica sarà colta da T.S. Eliot per definire la generazione di poeti secenteschi, in parte contemporanei dell’ultimo Shakespeare, poeti metafisici che sentono il pensiero come il profumo della rosa, immediatamente «trasformando idee in sensazioni, osservazioni in stati d’animo» (The Metaphisical Poets). Tra loro è incluso John Donne, ma non lo Shakespeare dei sonetti che avrebbero la stessa manchevolezza di Amleto, concepiti sotto il dominio di «una emozione inesprimibile perché in eccesso ai fatti quali appaiono». Quel misterioso paesaggio alle spalle della Monna Lisa-Amleto – («It is the ‘Mona Lisa’ of literature») – sarebbe effetto dell’io lirico rimosso dal centro e disperso come sfondo oscuro, indecifrabile? Sottili e sorprendenti emozioni – che i vittoriani non coglieranno, concede Eliot – animano il blank verse di Shakespeare a confronto con quello di Marlowe, «tutto fumo e fiamma». In Shakespeare è presente «un vizio di stile, una torturata perversa scaltrezza di immagini che dissipano anziché concentrare l’immaginazione, e che possono esser dovute in parte a influenze da cui Marlowe non fu tocco». Riconosce en passant il fascino brutalista delle «acute e spezzate enunciazioni» shakespeariane, che «tagliano di sbieco i suoi pensieri» (Sypher) – comuni anche a Webster, altro avido lettore di cronaca nera italiana, e a Donne.
Nel teatro intimo dell’intelletto desiderante – secondo un tardo averroista che Shakespeare avrebbe potuto leggere – «le immagini sono duplici, fra corpo cogitante e intelligenza extra-materiale … L’immagine è duplice, poiché si situa ai confini delle due vie in cui si realizza la congiunzione: l’una verso l’universale, l’altra verso il sensibile» (G. Agamben-J.B. Brenet, Intelletto d’amore, Quodlibet). «L’aria sottile e il fuoco che raffina, / gli altri due, son con te ovunque io sia : / l’una pensiero, l’altro desiderio, / presenti-assenti, scorrono veloci» (son. 45). Il concettismo si è insediato nel sonetto shakespeariano a governare figure doppie di somiglianza o diversità, ma in stretta dualità, corrispondenza, continuità tra amante e amato. Compattezza e stabilità che andrà in frantumi quando un terzo partner onnivoro, sessualmente più potente, entrerà nella partita. «Spreco di spirito in deserto d’onta / è la lussuria in atto; prima è bieca, / omicida, spergiura, vergognosa, / selvaggia, estrema, sanguinaria e infida; / non appena gustata, disprezzata…» (son.129). Il tradimento spezzerà il matrimonio neoplatonico, e il cuore ossessivamente ostentato sostituirà l’emblematica rosa a denunciare che ora è in gioco il corpo ulcerato dell’amante. «Amo i tuoi occhi, che per compassione, / sapendo che mi strazi col disdegno, / di nero in amoroso lutto vestono, / condividendo dolci la mia pena» (son. 132) Con esasperato wit manierista – rovesciamento, straniamento della argomentazione razionale, immagini dispari, strane, aggiogate a un senso – otterrà che gli «occhi a lutto» della nerissima perversa Dark Lady, tanto vituperata prima, intercedano per lui: «…ché il lutto ti dà grazia, / e tutto in te rivesti di pietà. / Giurerò allor che nera è la bellezza, / e brutto chi non ha quell’incarnato» (son. 132).
In un quaderno del 1953-’55, un giovane Manganelli scrisse urgenti riflessioni sulla vanità della gloria, la paura della morte, l’aiuto di un’ arte anonima. «La gloria moderna nasce nei sonetti di Shakespeare. Mai fu visto con tanta chiarezza che la gloria non è che un miserabile espediente … Non c’è che una cosa da fare: rinunciare alla gloria. Accettare la morte. Se accetteremo la morte. Se rinunciamo alla gloria vedremo che i libri si muoveranno diversi attorno agli scaffali – tu accetterai i libri che ti interessano – che ti danno almeno tanto piacere quanto un cocomero – e leggerai solo quelli. Il nostro discorso si farà il più terrestre, come le nostre passioni. Dobbiamo incanaglirci. Shakespeare, perfetta canaglia, è il tipo più perfetto di rinuncia alla gloria … Un sonetto vale un cocomero; e al suo centro oltre al rosso e al fresco sangue della cosa viva c’è il seme della gioia» (da «Riga 25», 2006).