La voce di Shaina Anand ci arriva nella confusione di quella che sembra essere una finestra aperta sulla strada. Grida, risate di bimbi, musica indiana nell’aria. Bombay, anche se solo al telefono. C’è musica sempre e ovunque qui ride lei. Shaina Anand è una delle artiste di punta sulla scena contemporanea di quella ricerca che intreccia differenti modalità nella produzione delle immagini; , arte, documentario, tecnologia, archivi mescolati in una ricerca che vuole forzare i confini abituali delle immagini. Insieme a Ashok Sukumaran, suo compagno anche di vita – hanno un bimbo di tre ani – Shaina Anand ha fondato nel 2007, a Bombay, dove la coppia vive, CAMP, un collettivo di artisti (loro però preferiscono definirisi un luogo di artisti) che si pone come obiettivo un rovesciamento nelle gerarchie dell’immaginario. Spazio pubblico e privato, sfera personale e collettiva, tecnologia interrogano costantemente il gesto artistico, e il confronto con la realtà, in una sperimentazione (politica) del mondo.
L’occasione per conoscere il lavoro di Shaina Anand e Ashok Sukumaran – che con il loro ultimo film, From Gulf to Gulf to Gulf hanno vinto la scorsa edizione del Fid Marseille – viene da «Tales from the Networked Neighborhood: the Cinema of CAMP», focus organizzato a Milano da Vassily Bourikas: cinque film e un incontro con Shaina Anand sul tema dell’archivio, perché tra gli strumenti di «destabilizzazione» delle immagini usati da CAMP c’è anche Pad.ma, archivio on line di immagini «grezze».

L’idea di CAMP, ci racconta Shaina Anand, nasce da suggestioni diverse. Per esempio l’esperienza delle tv di strada create alla fine degli anni Novanta a Bologna. E poi la rete, l’intervento in quello che Shaina chiama «lo spazio pubblico», i festival. Ma anche gli esperimenti con l’elettricità. « Vogliamo esplorare il rapporto tra il medium e i media, tra il mezzo e i linguaggi che utilizziamo per raccontare delle storie». Così nel 2007 lei e Ashok Sukumaran hanno appeso un generatore elettrico a un albero facendo scendere i fili dal loro appartamento, a Bombay, in strada. Un cartello avvertiva i passanti che si trattava di un interruttore pubblico, e se premuto avrebbe acceso e spento la luce nell’appartamento numero 23 del palazzo dietro di loro. «Abbiamo anche portato la corrente elettrica al camioncino del venditore ambulante di panini che non ne aveva. Ma l’elettricità è lo strumento che rende tutto possibile, la radio, il cinema, la televisione, la rete. C’è un legame indissolubile tra il mezzo e l’espressione che esige un nuovo tipo di assemblaggio formale».

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In che modo affrontate questa esigenza, la ricerca di nuovo tipo di assemblaggio formale?

Per noi conta il processo creativo. Il senso che viene abitualmente definito nella relazione tra forma e contenuto rimanda a questo processo nel quale sono coinvolti allo stesso modo il soggetto della storia e il pubblico. Ciò comporta anche una diversa riflessione sulla tecnologia. Ci piace l’idea di rovesciare i «normali» rapporti e le «normali» aspettative rispetto alla tecnologia. Una storia che accade nell’Oceano indiano o in Palestina è molto differente, ma l’urgenza di raccontarla deve essere comune. Per questo CAMP cerca di avviare progetti a lungo termine, con i quali si possono creare infrastrutture in cui lavorare.

Come pianificate il vostro intervento?

Ogni progetto è politico, perciò l’autonomia nel nostro lavoro è fondamentale. Se una Biennale d’arte ci invita, cosa che è peraltro la nostra base produttiva, per noi la cosa più importante è interrogare il rapporto che si crea tra la ricerca artistica e il contesto nel quale ci muoviamo. Il processo può essere molto lungo, possiamo proporne una parte ai «committenti» ma poi tornare sui posti anche anni dopo e continuare ciò che abbiamo iniziato.

Fammi un esempio.

Prendiamo uno dei film che verranno presentati a Milano, Al Jaar Qabla Al Daar – The Neighbour Before the House. Il materiale che abbiamo usato è stato prodotto da otto famiglie palestinesi che vivono in vari sobborghi di Gerusalemme/Al Quds, con una camera simile a quelle di controllo posizionata sul tetto delle case. Le famiglie si sono riprese da sé, e il paesaggio in cui si muovono è quello che vivono ogni giorno. Noi eravamo lì ma senza fare domande nel modo tradizionale, non ci interessava avere le riprese di gente che parla davanti alla macchina da presa. Sono loro invece a guidarci, a dirci di riprendere una cosa o un’altra, indirizzano la telecamera dove c’è un check point o dove uno della famiglia è nato . La vita familiare diviene così una sorta di esperienza partecipata che mantiene l’integrità del momento in cui si filma. Che è importantissimo, perchè è lì che ti metti in gioco e al tempo stesso racconti il paesaggio, l’emozione. In termini di processo artistico questo è già il lavoro. Cioè l’atto di filmare e prima di questo essere lì a condividere il processo con loro. Le famiglie ci hanno dato i materiali, li abbiamo usati per l’installazione e qualche mese dopo li abbiamo messi in rete nell’archivio di Pad.ma. Un anno dopo sono diventati un’altra storia, nel frattempo in rete altri li hanno usati, hanno avuto una vita … Ma a noi non interessa fare un film semplicemente in vista di un «final cut».

Anche «From Gulf to Gulf to Gulf» si è sviiluppato nel corso di diversi anni.

All’inizio del 2009 abbiamo cominciato a lavorare a un progetto per la Biennale di Sharjah,sulle navi che dal Golfo di Kutch portavano le merci in Somalia. Nell’anno della crisi economica globale avevamo notato che il movimento delle barche era cresciuto. Trasportavano di tutto, olio, pasta, materiale ospedaliero, enromi automovili tipo suv, le cose indispensabili per vivere e il supefluo. Il lavoro per la Biennale utilizzava una serie di registrazioni delle trasmissioni radio dalle barche, Ci interessava molto la rotta che coprivano per arrivare in Somalia, era una summa storica tra colonialismo e postcolonialismo, finanza e geopolitica. A quel punto volevamo approfondire il lavoro coi marinai e così ci è venuta l’idea del film. Nel corso degli anni avevamo raccolto molto materiale filmato in diverso modo, anche con i telefoni portatili, e abbiamo lavorato con i marinai incontrandoci nel nostro studio a Bombay. Il che ha fatto nascere un’amicizia che è anch’essa parte del film.

Il vostro lavoro viene finanziato nel sistema dell’arte. Quanto questa scelta determina il risultato?

Il mondo dell’arte è molto più libero di quello del cinema, e ci permette di essere completamente indipendenti. Non credo che potremmo ottenere gli stessi risultati con un produttore cinematografico. Non dobbiamo sottoporci ai pitch, o girare per i mercati di coproduzione, abbiamo a disposizione un budget e con quello organizziamo i nostri progetti, lo studio, la vita quotidiana. Naturalmente c’è una connessione tra questa modalità produttiva e il linguaggio dei nostri lavori, anche perché questo è un nodo centrale nel nostro processo creativo, in quello scambio tra soggetto e tecnologia che poniamo al centro della nostra ricerca. Penso anche che nel mondo dell’arte c’è ancora oggi più spazio per la critica, e per costruire un rapporto con i tuoi interlocutori. La rivoluzione digitale è stata anche molto importante per artisti come noi nella conquista di questa libertà.