Kabul fine anni ’80: i film di Bollywood vengono proiettati in cinema affollati da un pubblico entusiasta, al punto che la vendita di biglietti sul mercato nero è una consuetudine. Fra i rivenditori c’è anche Qodrat (Quodratollah Qadiri), appena quindicenne, un ragazzo di strada come tanti arrestato un giorno nel corso di una retata e portato all’orfanotrofio.
In The Orphanage, presentato alla Quinzaine des Realisateurs, la regista Shahrbanoo Sadat – la prima donna afghana a presentare un suo film a Cannes nel 2016: Wolf and Sheep – si sposta dall’Afghanistan rurale della sua infanzia raccontato proprio nel suo film d’esordio alla capitale del paese mediorientale durante la guerra civile. E attraverso la prospettiva di Qodrat, le sue esperienze all’orfanotrofio e l’evasione fantastica nel musical quando la realtà è troppo difficile da sopportare, racconta il passaggio dall’Afghanistan «sovietico» all’instaurazione dello Stato islamico.

A differenza di «Wolf and Sheep», «The Orphanage» non è ispirato alla sua esperienza personale.
La storia è tratta dalla vita del mio amico Anwar Hashimi: quando ci siamo conosciuti 10 anni fa ha iniziato a condividere con me le sue memorie. A partire dall’infanzia nell’Afghanistan rurale, quando ha perso il padre, la madre si è risposata e il nuovo marito non voleva prendersi cura di lui e i fratelli, che sono stati portati a Kabul.Nella capitale la vita era molto diversa e difficile e lui è finito a vivere per strada, e da lì è stato portato all’orfanotrofio sovietico dove è rimasto per 8 anni. Il film si conclude con l’arrivo dei mujaheddin all’orfanotrofio – che poi nella realtà ne hanno fatto una base militare: dal momento in cui hanno conquistato Kabul hanno anche occupato tutte le istituzioni statali ex sovietiche. Ma non avendo un posto dove andare Anwar ha continuato a vivere all’orfanotrofio per sei mesi dopo il loro arrivo. Quattro giorni dopo la sua fuga c’è stata la più grande strage che abbia colpito quella zona durante la guerra: non si è mai saputo quale sia stata la sorte dei ragazzi che a differenza di Anwar sono rimasti all’orfanotrofio.

Come mai ha scelto di raccontare quegli anni?
Perché è una vicenda profondamente radicata nella nostra storia. Determinante è stata anche la scrittura di Anwar, che «attraversa» la storia afghana senza partigianeria: il suo è il punto di vista di un bambino che si ritrova «incastrato» in una guerra. Non voglio lasciare Kabul, ma io e tante altre persone che ancora oggi vivono lì per scelta o necessità ci sentiamo proprio così: imprigionati in una guerra che non ci appartiene.

Il film è intervallato da sequenze in stile musical bollywoodiano.
Nel raccontare la storia di Qodrat non mi interessava entrare nel dettaglio dei suoi sentimenti, era il personaggio stesso a non consentirmelo: compatirlo sarebbe stata la cosa più sbagliata da fare, un punto di vista finto, distante dalla vita vera che le persone vivono lì. La maggior parte degli afghani non esprimono le loro emozioni: a causa della violenza di cui sono testimoni quotidianamente – e del pericolo che rappresenta anche solo uscire di casa – hanno un modo di fare distaccato, entrano nella modalità «di sopravvivenza». I film di Bollywood invece sono il contrario, i sentimenti vengono manifestati quasi all’eccesso. Un contrasto che trovavo molto interessante anche perché negli anni ’80 Bollywood aveva un seguito enorme in Afghanistan: quando un film usciva a Delhi il giorno dopo arrivava a Kabul.

Nel finale di «The Orphanage» è messo in scena il passaggio da uno stato laico a uno islamico.
Nonostante tutto credo che nel periodo sovietico Kabul abbia vissuto i suoi anni migliori: si andava molto al cinema, c’era una forte industria musicale, l’istruzione era diffusa, gli orfanotrofi e le scuole hanno dato un’opportunità di una vita migliore a tanti bambini come Anwar che hanno potuto viaggiare, studiare, e soprattutto usare il proprio cervello. L’Afghanistan è stato una vittima della Guerra Fredda – e gli Stati uniti con l’aiuto di altri paesi come il Pakistan o l’Arabia Saudita hanno creato i talebani per combattere contro i sovietici. Per poi arrivare nel 2001 a «salvare» il paese dai talebani stessi. E oggi la pace viene negoziata con loro: al tavolo dei negoziati ci sono solo uomini che condividono la stessa mentalità. Una delle condizioni dei talebani è che le donne restino relegate a casa – ma tutti sono felici perché li chiamano processi di pace.