Ho incontrato Shabnam Virmani a Bangalore, dove lavora a un progetto di film e musica su Kabir, poeta e mistico indiano vissuto fra il ‘400 e il ‘500. La sua poesia è ancora conosciuta e cantata in tradizione orale in India e in Pakistan, come guida alla ricerca di una spiritualità oltre le barriere, i dogmi, le religioni rivelate e le identità ossificate. I film di Shabnam mi avevano commosso; poi l’ho sentita in concerto, e mi ha profondamente coinvolto. Col Circolo Gianni Bosio e Apollo 11 siamo riusciti a portarla in Italia e oggi sarà protagonista a Roma al Piccolo Apollo di via Conte Verde, angolo via Nino Bixio, in una serata evento inizio ore 19.

«Sono nata in Punjab», racconta. «Ho vissuto un po’ dappertutto, ho lavorato molti anni in Guajarat col movimento delle donne rurali, usando il video e la radio per documentare le loro lotte e cercando di creare insieme progetti video di comunità. Ho lavorato anche con le cosiddette caste inferiori, i dalit, perciò molto del mio lavoro è stato accanto a gruppi di sinistra, socialisti. Nel 2002 ci furono gli scontri fra hindu e musulmani in Gujarat» – più di tremila morti, la maggior parte musulmani massacrati da nazionalisti hindu. «Io abitavo ad Ahmedabad, e c’è una poesia di Kabir che dice: guarda, il mondo è impazzito; dici la verità e ti picchiano, dici una menzogna e ti sorridono. Io non ho un retroterra spirituale, la famiglia non mi ha trasmesso nessuna tendenza religiosa, ho avuto un’istruzione molto occidentalizzata. Ma la voce di Kabir mi ha parlato in quel momento. Molta della sua poesia parla del pregiudizio, delle divisioni religiose, della follia umana. Così cominciai a leggere Kabir. Avevo sempre amato la musica, la poesia, ed ero pronta ad accogliere una visione spirituale. Sentivo che, da sola, la visione militante, politica, lasciava un vuoto. Io pensavo di usare la poesia di Kabir per il cambiamento sociale, ma lui mi poneva domande filosofiche più profonde. E una parte di me che non conoscevo cominciò a sentirsi nutrita. Non mi ero mai accorta di questo vuoto finché non ha cominciato a riempirsi. Tramite Kabir, cominciai a scoprire anche i linguaggi popolari dell’India: fu una grande gioia. Se sei una bambina di città e vai alle scuole inglesi, non ha il senso del rasa – il sapore, il succo delle cose. Non hai quell’esperienza della lingua. Così, ricevere la poesia di Kabir nei dialetti in cui è cantata – in Madhya Pradesh, nell’India centrale, nel Nord, in Rajastan, in Guajarat – mi ha ridato il rapporto con le mie radici linguistiche. È stata una gioia. Non mi rendevo conto che c’era un vuoto in me che aspettava di essere riempito. Così sono iniziati questi viaggi – alla ricerca dell’espressione musicale della poesia di Kabir, cercando di capire cosa significa per tanta gente una voce di molti secoli fa che continua a scorrere in tanti modi diversi.».

Nel film che vediamo stasera, Kabir insegna ad andare oltre la forma e il contorno delle cose, verso un assoluto senza confini che ci unifica tutti. «Gli storici dicono che Kabir è nato in una famiglia musulmana, forse neoconvertita, a Benares, Uttar Pradesh. Così lui rappresenta la confluenza di molteplici influenze religiose. La sua poesia è ricca di immagini dello hatah yoga – il corpo interiore, i chakra… È insieme critica sociale e corpo interiore, uno sguardo verso l’interiorità e verso l’esterno. Kabit rifiuta risolutamente di essere identificato come musulmano o come hinduista. Si rivolge continuamente a Ram, che è una divinità induista, ma usa molto linguaggio sufi, urdu, islamico. Ti insegna a ricercare il luogo da dove viene il tuo senso di appartenenza e di identità – e a bruciarlo.»

Fra i momenti più intensi del film il passaggio del confine militarizzato fra India e Pakistan – un passaggio anche simbolico. «È stato interessante personalmente perché le mie radici sono in Pakistan, i miei genitori vengono da lì e sono venuti da questa parte quando l’India è stata divisa dal Pakistan. E politicamente: perché è difficile passare quel confine, ed è un po’ come entrare dentro un’alterità demonizzata – e demonizzante. È stato emozionante trovare in Pakistan lo spirito di tante cose che ci sono care in India. È stato un viaggio poetico, una metafora: passare il confine e scoprire Kabir lì, nel cuore dei cantori sufi. Gli islamisti ortodossi non vogliono avere niente a che fare con Kabir; ma tanti cantori sufi lo amano, lo sentono come una delle loro voci, come Hafez o come Rumi». Anche l’opera di Rumi – poeta persiano del ‘200, fondatore dei dervisci rotanti – come quella di Kabir, è poesia, pensiero religioso, e canto.

«Quando mi sono messa in viaggio alla ricerca di Kabir, ho iniziato a sentirmi invasa dalla musica, a sentire l’impulso di poggiare la cinepresa e prendere in mano la tambura. A volte, siccome filmo tutto personalmente, la macchina da presa mi faceva sentire estranea, separata. Un distico di Kabir dice: il rosso del mio amore-gioiello è così rosso che ovunque guardo vedo quel colore; sono uscito alla ricerca di quel rosso e lo sono diventato io stesso. È la scomparsa della divisione fra osservato e osservatore. Sei vuoi capire quello che cerchi, lo devi diventare tu stesso. La macchina da presa è una tecnologia meravigliosa, e continuo a usarla, ma avevo bisogno di sovvertire la distanza creata dalla macchina. Rifiuto l’approccio documentaristico che consiste nel prendere le distanze tra me e la realtà che filmo: io sono lì con la macchina da presa, perciò divento parte di quella realtà e la cambio per il fatto stesso che sono lì. Questa interazione che crei con gli altri è il cuore del doc; è il dialogo».