“Black Live Matter!” ripete più volte la cantante Siyabonga Mthembu in conclusione del concerto. Il celebre slogan degli afroamericani in rivolta contro gli assassini commessi dalla polizia statunitense è diventato uno slogan globale. Utile e produttivo per ogni latitudine. Conclude il concerto di Shabaka & the Ancestors, performance che può essere considerata come simbolo dell’edizione ventisette di Udin & Jazz, rivolta alla ricerca delle connessioni tra jazz e musiche africane. Il gruppo è guidato dal sassofonista Shabaka Hutchings, figura tra le più interessanti del jazz europeo. Musicista che si muove tra collaborazioni eccellenti (Luois Moholo, Heliocentric) e progetti originali come i fenomenali Sons of Kemet e questa nuova creatura ascoltata nel capoluogo fiulano. Con lui Mthuzu Mvubu, sax alto, Ariel Zomosky, basso, Tom Skinner, batteria e Gontse Makhene, percussioni. Formazione ridotta di quella che ha inciso l’anno scorso il cd Wisdom of Elders presentato in concerto. La musica è il risultato dell’incontra tra Hutchings e un gruppo di giovani musicisti sudafricani ed è bellissima. Lo è perché non rifà la grande tradizione dei Dollar Brand o Chris Mc Gregor ma invece si getta in una nuova avventura sonora. Shabaka scrive temi folgoranti che rimangono impressi nella mente degli ascoltatori e fonde suggestioni molteplici. Da quelle africane naturalmente a quelle caraibiche, con quel particolare colore british jazz. Jazz contemporaneo finalmente.

Più classico invece il concerto del padre nobile dell’ethio -jazz Mulatu Astatke che ha presentato Sketches of Etiopia con un robusto e multicolore ottetto. Dalla celebre Yekermo Sew a una interessante suite di tre movimenti il settantaquattrenne vibrafonista ha incantato per classe e verve strumentale passando dal vibrafono a diverse percussioni. Nello stesso pomeriggio altri due bei concerti hanno proposto altrettante visioni. Sotto la bella Loggia del Lionello il pianista Claudio Cojaniz con il suo quartetto ha presentato il nuovo cd Songs for Africa con una serie di sue composizioni originali ispirate al continente nero. Non sbaglia un colpo il musicista friulano e anche questa volta incanta grazie ad una musica sentita con verità e lasciata libera di scorrere tra intensi interplay con i compagni di viaggio Alessandro Turchet, contrabbassista dal bel profilo melodico spesso in azione con l’archetto, e la coppia percussiva Luca Colussi e Luca Grizzo. Penalizzato dalla frettolosa collocazione in una stanza che non riusciva a contenere tutto il pubblico a causa di un improvviso temporale il palestinese Adnan Joubran non si è scoraggiato e ha proposto un set acustico di world music di bella fattura nel quale la tradizione araba si apre al mondo.

Tra i tanti concerti del Festival una buona parte come di consueto è riservata ai musicisti italiani e friulani, una scelta della direzione artistica particolarmente apprezzabile. Il sassofonista Francesco Bearzatti ha presentato il suo nuovo progetto Dear John dedicato A John Coltrane. Rispetto alla premiere a Prato di questa primavera è confermato il tastierista Emanuel Bex e invece Roberto Gatto subentra a Jeff Ballard. Nonostante la generosità del sassofonista il progetto però manca di una unità estetica ondeggiando tra africanismi, episodi hard bop, derive lounge. In particolare appare evidente la divaricazione tra l’impeto, del tenore e la leggerezza delle sortite di Bex.

Nella stessa piazza Matteotti il giorno precedente il flautista Massimo De Mattia ha presentato il suo nuovo quartetto. «Suono Madre» lo vede in compagnia del fender rhodes e sintetizzatore di Giorgio Pacorig, della batteria e percussioni varie di Zlatko Kaucic e del vibrafono di Luigi Vitale. Un supergruppo di musica improvvisata in grado di inventare paesaggi sonori inauditi e ingaggiare una, vincente, battaglia sonica con lo scampanare della chiesa di San Giacomo. Attitudine progressive e competenza strumentale eccelsa. I quattro musicisti erigono cattedrali poliritmiche tra tribalismo e elettronica. Tutto si frantuma e si ricostruisce in un incessante divenire di suoni sunraniani, panetnici, rock scarnificato. Spunta una danza di arlecchino seguita da un caos magnifico, liberatorio. Il flauto basso di De Mattia disegna arabeschi scurissimi nel cielo di Udine. Jazz? Sì jazz.