Shabaka Hutchings è presenza ubiqua e funambolica della New Wave del jazz britannico che si sta esprimendo al massimo della creatività tra due tendenze non per forza di cose inconciliabili, da un lato un’attitudine sperimentale e retro-futurista che ha molte connessioni con la club culture e il dancefloor, dall’altro una ricerca ancestrale che guarda alle radici africane e caraibiche, con in mezzo le diramazioni più disparate. Il sassofonista e clarinettista britannico, originario delle Barbados, è ormai da qualche tempo un personaggio cardine di queste nuove esperienze jazzistiche sedimentate nel solco del dialogo tra culture privo di ogni mediazione razionale, con i suoi Sons Of Kemet, Shabaka&TheAncestors e poi questa creatura molto sci-fi. Nella Londra periferica e meticcia ci si vede, si improvvisa, si suona. Da una jam session al Ronnie Scott sono nati The Comet is Coming, un progetto dal dna sperimentale che King Shabaka (sax tenore e clarinetto basso) condivide con Danalogue The Conqueror (tastiere) e Betamax Killer (batteria). Insieme la band ha da poco pubblicato il nuovo disco, The Life Force In the Deep Mistery su etichetta Impulse!

«CI SIAMO incontrati – spiega Shabaka – perché fondamentalmente facevamo parte della stessa scena. Dan (Leavers) e Max (Hallett) erano nella club culture londinese avendo suonato tantissima elettronica, krautrock, post-rock per molti anni nel duo Soccer96. Ormai da anni quello che succede nella club culture è molto correlato con il jazz. Perciò loro venivano spesso ai miei set e così un giorno ho pensato di aggiungere il mio sax al loro combo: è andata bene ed abbiamo cominciato a suonare insieme». Hutchings fa parte di quella generazione di musicisti che hanno meno di quarant’anni cresciuti ascoltando l’hip hop e che ora stanno riversando nel jazz quegli ascolti, pratiche ed estetiche ma nella sua formazione musicale, il reggae e il calypso hanno avuto lo stesso peso di Beethoven e Joe Farrell.

«HO UNA FORMAZIONE classica, ho studiato clarinetto classico. Ma non ho mai desiderato essere un musicista classico. Quando stavo imparando a suonare il mio strumento, la mia vita è stata dominata dagli studi classici e ho imparato sostanzialmente ad eseguire. Nel periodo in cui ero alle Barbados ho cominciato ad essere aperto alle varie influenze e a suonare in varie band reggae e calypso esercitandomi al clarinetto sui testi di Capleton, Sizzla, Anthony B, Krosfyah e roba simile. Lì la musica è ovunque, c’è una vibe incredibile per la strada, la musica è ritmo e gioia». Di ritorno nel Regno Unito, a Birmingham viene introdotto alla pratica dell’improvvisazione jazzistica da Soweto Kinch e Courtney Pine e si appassiona al sassofono. «Ero entrato in contatto con il jazz poco tempo prima, quando ero ancora nelle Barbados, perché un amico aveva dato a mia madre una cassetta con il live di Miles Davis, My Funny Valentine e un album del Gary Crosby Quartet». Ma il suo approccio alla materia è sempre stato molto poco convenzionale. «Non mi appassiona l’idea di rifarmi in maniera calligrafica agli standard del jazz. Trovo che sarebbe terribile per un musicista della mia generazione. Per me il jazz è un’attitudine come il punk».

NEL DISCO dominano il ritmo e le voci strumentali, quella torrenziale del tenorista, e l’attitudine post-rock di tastiere e batteria. Il suo è uno spirito radicale e le sue sonorità privilegiano l’asprezza come negli anni d’oro della new thing, anche i compagni procedono liberi senza alcun tema, su un tessuto di frasi brevi che si rincorrono. E la dialettica implicita tra rilettura e riscrittura del passato si manifesta in un intrigo di linguaggi musicali sovrapposti, un ibrido tra i racconti di Philip K. Dick e la musica cosmica, dai vortici metafisici di John Coltrane, Sun Ra, ma anche Stockhausen (sì, lui), in avanti.