Il fascismo è caduto da poco e Michele Mancino, bracciante comunista, parte da Potenza per i paesi più sperduti della Lucania, fino ai confini della Calabria. Si muove avendo a disposizione informazioni spesso scarse: un nome avuto da un conoscente, un contatto fornitogli da un compagno in una riunione. Laddove ha anche solo una persona con cui parlare lui va, spostandosi a piedi come un pellegrino della politica. Piero di Siena lo incontra quando questi ha ormai 98 anni e conserva un’agilità inconsueta per un uomo della sua età. Gli racconta di quando andò a chiudere una campagna elettorale a Senise: «La Dc aveva fatto venire un professore universitario da Napoli, che si era prodotto in una lunga e dotta confutazione del marxismo. La sera successiva parlai per quattro ore, smontando a uno a uno gli argomenti del professore, a partire dalla polemica tra Labriola e Croce». Basterebbe questo a esemplificare il collasso culturale che ha interessato l’Italia e il suo meridione, ma la vicenda è ancor più straordinaria se si pensa che per il contadino Mancino l’università è stata il carcere, dal 1928 al 1932 sotto il fascismo, a Viterbo, «unico superstite dei compagni di carcere del padre dell’idea moderna di Europa, Altiero Spinelli».
È grazie a personaggi come lui che il sud Italia ha ridotto le distanze con il nord, nonostante l’emigrazione di massa, in quel periodo che va dall’immediato dopoguerra al boom economico degli anni ’60, e così avanti fino agli anni ’80 – come ci ha ricordato lo storico Francesco Barbagallo nel suo recente La questione italiana (Laterza editore). Piero di Siena, che è stato un dirigente di primo piano del Partito comunista meridionale – segretario in Basilicata, redattore di Rinascita e dell’Unità, senatore, presidente dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra – riporta a galla alcune storie rimosse in un agile libello che già dal titolo dichiara la sua internità alla storia del comunismo meridionale: Nel Pci del Mezzogiorno (CalicEditore, pagg. 118, euro 10).
Un partito, il Pci, che svolge un ruolo fondamentale non solo di organizzazione delle masse contadine, ma di educatore di queste ultime. Più complesso il rapporto con la classe operaia: il radicamento sociale, la selezione e formazione dei quadri dirigenti nel dopoguerra avvennero – a macchia di leopardo – attorno alle lotte per la terra. Viceversa furono i socialisti a puntare di più sullo sviluppo industriale, mettendo in un angolo, nelle fabbriche che nascevano, sia il Pci che la Cgil. Unica eccezione, l’Italsider di Taranto. È solo lì e a Napoli che «la classe operaia costituisce il principale punto di riferimento del Partito comunista». Nel frattempo, la società contadina, con la sua cultura, viene eradicata, e il Pci si rivolge ai ceti medi emergenti e all’intellettualità cittadina per ricostruire un blocco sociale capace di essere gramscianamente «egemonico». Piero di Siena ammette di aver guardato, negli anni ’90, alla nuova classe operaia meridionale piuttosto che ai ceti medi che non erano riusciti a rinnovare il «partito nuovo» di Togliatti: quella della Fiat di Melfi e dell’ormai privatizzata Ilva di Taranto. Ma non si può dire che gli eredi del suo partito l’abbiano seguito. Il suo libro, emozionante a tratti per le storie che racconta – Piero Laguardia, il primo licenziato alla Fiat di Melfi, rifiutava di indossare la tuta perché voleva rimanere un «individuo» anche sul luogo di lavoro – è un utile esercizio di memoria e ci parla di un’Italia inspiegabilmente scomparsa.