È il gioco delle differenze e delle diverse interpretazioni dell’identità a essere indagata nella collettiva Il Cacciatore Bianco. Memorie e rappresentazioni africane (FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, fino al 3 giugno, a cura di Marco Scotini) un percorso iconografico che documenta il limite dell’analisi e dell’interpretazione occidentale sull’arte africana per rivelarne l’aspetto coercitivo e far emergere ciò che lo sguardo «bianco» non è riuscito a catturare con le sue costruzioni identitarie, come scriveva Franzt Fanon nei suoi illuminanti saggi. Ed è Stuart Hall a suggerire la metodologia investigativa della mostra che non intende rispondere alla domanda «chi siamo?» quanto all’altra: «come ci hanno rappresentato». E le risposte si rintracciano nelle 120 opere di 40 artisti, tra film, installazioni, sculture e dipinti.
Nella prima sala vi è una capanna piena di cianfrusaglie e oggetti di Pascale Martine Tayou, una parodia sullo stereotipo dell’arte africana, ma già nella sala successiva il film Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi si interroga sulla pratica di riscrittura della storia coloniale italiana attraverso archivi filmici eterogenei. Immagini dei corpi senza vita di Mussolini e Claretta Petacci in Piazzale Loreto, fucilazioni, parate militari in Libia, Abissinia, Etiopia, e lo sguardo in macchina di un giovane libico che osserva lo sbarco dei soldati italiani, e poi quello di uno donna etiope che, consapevole di essere ripresa, contraccambia l’interesse di colui che la filma. Sguardi che ci interpellano sul passato coloniale, un momento non abbastanza indagato della storia italiana, come suggerisce l’artista Peter Friedl nel libro Modernità segreta.

L’affondo storico prosegue con il riallestimento della sala 7 della Biennale di Venezia del 1922 che raccoglieva 33 sculture e maschere africane. La mostra, curata dall’archeologo Carlo Anti e dall’antropologo Aldobrandino Mochi, di cui non vi sono documentazioni fotografiche ma solo testuali, intendeva colmare il vuoto teorico sul primitivismo in Italia, presentando le sculture come «arte» e non come reperti etnografici.

Abdoulaye Konaté, Homme du Sahel, 2015, Textile, Courtesy Primo Marella Gallery - Milano
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«Oltre alla sala sulla Scultura Negra del 1922 ho voluto presentare frammenti di mostre già realizzate sull’Africa, come Magiciens de la Terre, al Pompidou nel 1989, e Documenta 11 a Kassel nel 2002, mettendole in sequenza, – anche se tra l’una e l’altra erano passati molti anni – per creare una serie di giustapposizioni. Ho considerato le opere come una rappresentazione in continuo cambiamento, legate a costrutti culturali, ideologici e sociali», commenta il curatore Scotini. Di Magiciens de la Terre, mostra che continua a essere oggetto di un acceso dibattito critico, sono esposte le terracotte di Seni Awa Camara, i feticci di legno di John Goba, le divinità voodoo di Cyprien Tokoudagba, i modelli di città immaginarie di Bodys Isek Kingelez e le pitture del congolese Chéri Samba. Tra gli artisti presentati a Documenta 11 Abdoulaye Konaté indaga la diaspora come condizione esistenziale, Yinka Shonibare propone un’africanizzazione dell’occidente, Meschac Gaba gioca con l’idea del museo dell’arte africana, William Kentridge si occupa di apartheid e colonialismo, Kendell Geers di segregazione razziale, mentre John Akomfrah con il film The Nine Muses lavora sugli archivi della Bbc per dare un volto, una soggettività ai migranti.

La rassegna termina con un totem fatta di specchi portacipria del giovane artista Joël Andrianomearisoa, opera che contrasta lo stereotipo presente nella prima installazione, nella capanna di Pascale Martine Tayou. Non più rappresentazione, ma rispecchiamento del principio di realtà, del volto di ognuno di noi.