Nell’episodio precedente ci eravamo lasciati con lo «sguardo in macchina» dei titoli di testa de Le Mépris. Nel 1963, Godard gioca ad evocare Monika di Ingmar Bergman, un film esattamente di dieci anni precedente, e sul quale aveva scritto in un famoso articolo dal titolo «Bergmanorama» (Cahiers du cinéma, 1958) nel quale si legge, tra l’altro: «cosa sognavamo quando Monika è uscito sugli schermi parigini ?». Lo sguardo in macchina è sempre un’occhiata rivolta non solo alla cinepresa ma ancor più alla sala, a quegli spettatori che, nascosti nel buio, sprofondati nelle poltrone, guardano pensando di non essere visti. Ma è tutta un’altra cosa quando è una cinepresa a guardare in macchina. È il cinema a voler indagare su se stesso. Certo, già dalla fine degli anni cinquanta alcuni cineasti si mettono a raccontare Hollywood.

ED È SEMPRE più o meno una storia di morti viventi. Viale del tramonto inizia con il corpo di uno sceneggiatore che galleggia senza vita nella piscina di una ex diva del muto. Morto, ma è la sua voce off, come se fosse ancora vivo, che ci racconta la sua ultima avventura. Morto, ma al tempo stesso vivente. In Il bruto e la bella (1952) Vincente Minnelli racconta Hollywood attraverso il personaggio di un produttore interpretato da un grandioso Kirk Douglas, figura per molti ispirata al leggendario David O Selznick, ma attraverso il quale Minnelli mette in scena un mosaico di storie hollywoodiane, come quella della creazione del Bacio della pantera da parte del produttore Val Lewton in complicità con il regista Jacques Tourneur (la scena in cui hanno l’idea di non mostrare i mostri, ma solo delle ombre, avviene appunto in una sala di proiezione). Sono storie di zombi e di uomini gatto sullo schermo e anche dietro la macchina da presa. E soprattutto di ombre.

MA SE il «cinema sul cinema» è un genere noto, meno in primo piano è la storia del cinema sulla sala e sull’esperienza dello spettatore. Il cinema che si chiede, con Godard, cosa sognano gli spettatori? Il prototipo è ancora un americano, L’Amante (Possessed) di Clarence Brown, girato nel 1931. Che si tratti di un film sul cinema è al tempo stesso oscuro ed assolutamente evidente fin dalla prima immagine: un gruppo di operai esce dalla fabbrica – alla lettera, il primo film dei Lumière. Tra questi c’è Joan Crawford, raggiunta da un altro operaio che si mette a camminare accanto a lei. Lui vuole sposarla, ma lei ambisce ad un’altra vita. Ma come può un’ operaia della Pennsylvania uscire dal proprio mondo proletario e accedere ad un’altra classe sociale? A questo punto arriva un treno (ancora i Lumière !), ma somiglia più ad una scatola magica che ad un mezzo di trasporto. Passa davanti agli occhi della giovane Joan con innaturale lentezza. Ogni finestra sembra uno schermo. Ed in ogni schermo c’è una storia: un giallo, un romanzo d’amore, una commedia da telefoni bianchi… Ce n’è per tutti i gusti. Su quale carrozza salirà la nostra eroina? Questo treno è la promessa che il cinema propone ad ogni spettatore. Sali sulla nostra giostra e diventa Simbad il marinaio, Jeremy il contrabbandiere, Jerry Travers il ballerino… O quello che vuoi. Ma a quel sogno manca un pezzo. Le sale degli anni trenta hanno un solo schermo. E per lo più sono legate ad un solo genere. Gli studios sanno che ogni spettatore ha un suo genere d’elezione. Agli uomini piacciono i western, alle donne le commedie musicali. Certo, ci sono eccezioni.

STALIN, per esempio, preferiva le commedie musicali. Ma la distribuzione si organizza seguendo queste linee guida, per genere e per pubblico. Presto gli Studios si specializzano: la Fox fa drammi sociali, la Mgm è nota per le sue commedie sofisticate. E siccome gli Studios possiedono le sale anche queste, che sono monoschermo, spesso si specializzano in un genere.

IL CINEMA classico vive per tutta la sua storia una sorta di schizofrenia: da un lato si considera come arte, dall’altro viene prodotto e pensato con metodi simili a quelli delle marche di sigarette: ogni Studio cerca di darsi un’immagine e di fidelizzare un pubblico. Jean Eustache scherza su quest’aspetto in Mes petites amoureuses (1974), quando mette in bocca ad un adolescente una frase che ha l’assolutezza tipica dei giudizi dei cinefili: «sono scemi i film Paramount ». Ma se da un lato la fidelizzazione del pubblico rassicura i produttori dall’altro rende fragili i lungometraggi prodotti. Cosa vuole il pubblico? Vuole essere rassicurato ma vuole anche scegliere. Vuole rivivere l’emozione di un film già visto, ma anche vedere qualcosa di nuovo. Per salvare capra e cavoli, gli Studios mischiano i generi: provano a fare dei musical nel western, o commedie musicali con pallottole.

È ANCORA Billy Wilder, nel geniale A qualcuno piace caldo, a irridere, e al tempo stesso giocare con maestria, sul trasformismo dei generi. Ma quel treno promette alla nostra operaia della Pennsylvania un viaggio che il cinema non può ancora dare. E che verrà proposto prima dalla televisione. Con l’invenzione del telecomando, il telespettatore può comodamente scegliere un genere, senza rinunciare ad un altro. Può saltare da un canale all’altro, come un viaggiatore passa da una carrozza ad un’altra. Il cinema cercherà di reagire tardivamente con i Multiplex, che a partire dagli anni sessanta sostituiscono progressivamente i vecchi monoschermo. Ormai la sala corre dietro alla televisione. I primi telecomandi, sono introdotti in America già negli anni Cinquanta. In Italia arriveranno solo sul declinare degli anni settanta, quando inizia l’era delle televisioni locali destinate a diventare, nel decennio successivo, nazionali. Nello stesso periodo, il cinema italiano racconta la lunga agonia dei monoschermi. Ettore Scola lo fa nel 1989 nel film Splendor, con Marcello Mastroianni, Massimo Troisi e l’attrice godardiana Marina Vlady, impegnati in un trio amoroso altrettanto improbabile che la proiezione del Posto delle fragole (Bergman, ancora lui !) ad Arpino in provincia di Frosinone. In un certo senso, meno diretto ma più incisivo, aveva aperto le danze Pupi Avati, con il personaggio dell’esercente che perde il suo cinema al tavolo da poker in Regalo di natale (1986).

Scena da «Sogni d’oro» di Nanni Moretti

MA QUESTI SGUARDI sono più nostalgici che altro. Il solo cineasta che abbia veramente girato il suo sguardo verso la sala è Nanni Moretti. E non è un caso sia arrivato alla ribalta esattamente in quel periodo di rivoluzione televisiva, tra fine Settanta e inizi Ottanta. Moretti è quello che con più tenacia, in maniera a volte giocosa e più spesso tormentata, ha rappresentato la presenza del cinema nella vita: il cineclub di quartiere, introvabile, nascosto forse dietro una sala da pranzo, che non troveranno mai i protagonisti di Ecce Bombo; la grande sala di provincia riempita di pupazzi in Sogni D’oro, o la sala per eccellenza, quella che porta il nome del dolce preferito: il cinema Sacher che Moretti filma (in La Messa è finita), poi acquisisce e infine filma ancora e ancora (Caro diario, Il giorno della prima di Close Up, Diario di uno spettatore). In Nanni Moretti la sala è un mondo. E il mondo, vale a dire Roma, è una sala.
La Scuola Marilyn Monroe di Bianca, la chiesa di periferia di La Messa è finita, la piscina di Palombella Rossa, le sezioni di partito della Cosa, tutti questi luoghi un po’ polverosi, disabitati e che al tempo stesso si popolano improvvisamente di strani personaggi, tutto questo universo è il cinema. È un mondo morente e vitale. Sempre presente. Anche se forse si tratta solo di un ricordo. O di un sogno.

4 – fine (le precedenti puntate sono uscite il 6, 13 e 20 agosto)