Il teatro salvato dai ragazzini? È quasi inevitabile il richiamo alle parole usate da Elsa Morante per il proprio manifesto poetico e politico di fronte ai due lavori visti nello scorso fine settimana al LAC di Lugano, il grande palazzo vetrato affacciato sul lago che dal 2015 è diventato la sede dell’ambiziosa programmazione culturale della capitale ticinese. Musica, arti visive (fino a metà giugno è aperta una bella mostra dedicata a un Picasso altro da quello più noto dei dipinti) e sotto la sigla LuganoInScena il settore teatro diretto da Carmelo Rifici, da poco confermato per un secondo quadriennio.

Nettles della compagnia ticinese Trickster-p, ovvero Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl, è un percorso che gli spettatori compiono individualmente attraverso una serie di piccole stanze apparecchiate (si entra a distanza di tre minuti l’uno dall’altro), accompagnati in cuffia da una voce femminile. Si parte dal modellino di una funivia che innesca il racconto di un sogno, si attraversano ambienti domestici, si incontra una fila di scarafaggi o ci si arresta di fronte alla teca di San Gerardo che si trasforma in uno specchio.

Se le ortiche del titolo sembrano alludere a qualcosa di irritante, è piuttosto con un sentimento di inquietudine che ci si immerge nelle pieghe di una favola un po’ horror, fra i rumori di un esterno che sembra sempre minaccioso, anche solo per l’abbaiare di un cane. La sguardo dell’infanzia di fronte alla morte è anche il tema del più impegnativo spettacolo di Milo Rau. Five easy pieces è stato creato a Gent un paio di anni fa e il successo che ha riscosso fa sì che giri ora le scene internazionali con due diverse formazioni. In scena ci sono sette ragazzini, dai dieci ai tredici anni più o meno. Di entrambi i sessi. Tutti belgi di lingua fiamminga ma di evidenti (e certo volute) origini diverse. Uno alla volta vengono chiamati a presentarsi dall’uomo che siede più indietro, di lato, a un tavolino che funge da banco di regia. Fa domande, prende nota delle risposte, commenta in maniera secca qualche passaggio.

Il re-enactment, la rielaborazione drammatica di eventi reali che costituisce la base del lavoro del regista svizzero tocca questa volta la vicenda terribile di Marc Dutroux, l’uomo che negli ultimi decenni del secolo scorso sequestrò e seviziò sei ragazzine. Solo le ultime due furono ritrovate vive, quando finalmente il loro aguzzino fu individuato fra molte polemiche per i ritardi della polizia. Quello a cui si assiste è in realtà un progressivo slittamento verso un cuore di tenebra che si sviluppa quasi come una lezione di storia del Belgio, a partire dall’uccisione di Lumumba e dall’indipendenza del Congo, dove si era trasferito il padre di Dutroux.

È lui il primo a presentarsi per un’intervista, sul palchetto mobile dov’è allestito il set della scena, ripresa in video dall’attore anziano e proiettata in diretta sullo schermo che incombe sullo spazio scenico.

Sono i cinque pezzi facili del titolo. Che facili naturalmente non sono, anzi sono spesso emotivamente insopportabili. Sarà poi la volta del poliziotto inquirente, dei genitori di una delle vittime, soprattutto della ragazzina che racconta le violenze subite mentre era prigioniera nello scantinato di Marcinelle. Ed è il pezzo più disturbante, persino con un’ombra di morbosità, giacché annulla la distanza anagrafica che altrimenti separa questi giovanissimi attori, ben consapevoli di essere tali, dai personaggi che interpretano.

Perché non vi è dubbio che il significato secondo dello spettacolo di Milo Rau, e forse di tutto il suo teatro, è anche un interrogarsi sul senso del teatro ai giorni nostri che lo sguardo dei bambini rende più radicale. Non è un caso che si chiuda con la parabola pasoliniana di Cosa sono le nuvole? Nel film le marionette, che non erano mai uscite dal loro teatrino, vedono per la prima volta il cielo quando, diventate inservibili, sono buttate fra le immondizie. Per dire che la realtà vera sta comunque fuori.