Una serie di iniziative organizzate in Giappone e nel Regno Unito hanno contribuito a riportare il tema «le donne e il cinema nipponico» al centro dell’attenzione e della discussione cinefila e sociale , e il momento non potrebbe essere più topico. Retrospettive dedicate ad attrici come Ayako Wakao e Chieko Baisho si sono avvicendate infatti in alcuni dei teatri del Sol Levante, mentre il BFI di Londra in ottobre ha dedicato un’interessante focus alle donne nel melodramma giapponese del periodo d’oro, fra gli anni quaranta e sessanta del secolo scorso, rimarcando quindi l’importanza, spesso taciuta, delle attrici nell’evoluzione del cinema del Sol Levante.

Più direttamente in contatto con la contemporaneità e nello specifico con il ruolo delle donne regista nel cinema nipponico degli ultimi 15 anni è invece la retrospettiva, Archipelago: Exploring Japanese Woman Directors, appena conclusasi nella capitale britannica e che ha presentato quattro delle voci femminili più originali della cinematografia giapponese contemporanea. In una realtà che fin dagli inizi è sempre stata dominata dagli uomini, non è un fatto di poco conto che negli ultimissimi anni si stia facendo largo, con merito, la presenza femminile.

La retrospettiva londinese ha presentato Wild Berries di Miwa Nishikawa, Rent-A-Cat di Naoko Ogigami, Bare Essence of Life di Satoko Yokohama e Death of a Japanese Salesman di Mami Sunada, film girati fra il 2003 ed il 2012 e molto diversi fra loro ma che offrono uno scorcio sulla varietà che lo sguardo femminile sul mondo è in grado di offrire. Naturalmente queste solo solo alcune delle voci emerse negli ultimi decenni dal panorama cinematografico del Sol Levante, sempre per restare in questo millennio, Momoko Ando è una regista che se con il debutto, A Piece of Our Life aveva sorpreso, con la sua seconda fatica, 0.5mm, fluviale opera che affronta il tema della vecchiaia e della solitudine, aveva quasi fatto gridare al miracolo.

Stessa cosa dicasi per Mipo Oh, regista e sceneggiatrice di origini coreane e autrice dell’importante The Light Shines Only There, con cui esplora le vite di alcuni giovani ai limiti della società nipponica nel paesaggio mozzafiato dell’isola di Hokkaido. Naturalmente l’autrice giapponese più nota a livello internazionale rimane ancora oggi Naomi Kawase, nome sempre presente nei grandi festival internazionali dove si è fatta conoscere alla critica di tutto il mondo con i suoi lungometraggi.

La carriera dietro la macchina da presa comincia però per lei con «piccoli» documentari personali e intimi. E così il cinema di non-fiction, per il suo essere, dal punto di vista produttivo, fuori dalle solite logiche delle grandi case di produzione, è stato e continua ad essere una grande occasione espressiva per i registi indipendenti. Il già citato Death of a Japanese Salesman è proprio un documentario, un’opera molto vibrante e delicata sulla morte del padre della regista che poi nel 2013 avrebbe diretto The Kingdom of Dreams and Madness sullo Studio Ghibli. Ma anche andando indietro fino alla metà del secolo scorso, è ancora il documentario uno dei canali espressivi che più di altri hanno permesso alle donne di far sentire la loro voce, in questo senso la regista giapponese più importante per il cinema del Sol Levante, per quanto abbastanza sconosciuta fuori dall’arcipelago, è senza dubbio Sumiko Haneda, che dagli anni cinquanta fino ad oggi continua a catturare con stile i mutamenti della società giapponese come pochi altri hanno saputo fare.

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