Dopo i sigilli al centro sociale Corto Circuito, è toccato al Brancaleone. Un altro spazio storico, nato all’interno del ciclo di occupazioni che ha animato Roma e le sue periferie dalla fine degli anni ’80, chiude i battenti su ordine della magistratura mentre la politica alza le mani in segno di impotenza. Il sequestro penale del Brancaleone è un salto di qualità, un segnale minaccioso per tutti gli altri spazi e per la città intera. Come era avvenuto nel caso del Corto Circuito si colpisce una delle strutture più longeve e radicate. I sigilli rischiano di scatenare un effetto domino preoccupante.

La storia di questo posto era cominciata nel 1990 con l’occupazione di una palazzina in via Levanna sulla via Nomentana. Cinque anni più tardi, grazie ad una campagna cittadina cui il Brancaleone partecipò, la giunta Rutelli riconosceva con la delibera 26 il valore sociale delle occupazioni e si impegnava ad assegnare gli spazi occupati di proprietà comunale. Così, nel 1996 gli attivisti avevano ottenuto l’assegnazione del posto. Il «Branca», come viene amichevolmente chiamato, continua a crescere, si dedica soprattutto alla produzione culturale e prende in affitto una sala concerti in uno stabile confinante con la sede storica. Succede però che l’amministrazione Marino vari un’altra delibera, la 140, che si propone di definire le «linee guida per il riordino del patrimonio indisponibile in concessione».

Nei fatti, il sindaco prima e il commissario Tronca poi hanno calato una scure di controlli, morosità e promesse di nuovi bandi che minaccia decine di spazi sociali e associazioni di tutto il territorio capitolino. In questo contesto arriva lo sgombero di ieri. «Dopo quasi vent’anni di delibera 26 – protestano quelli del Brancaleone – l’amministrazione comunale ha deciso di cancellare spazi culturali autogestiti, centri sociali, e le numerose realtà portatrici di cultura indipendente e solidarietà».

Il fascicolo della magistratura che giustifica lo sgombero porta il reato di occupazione abusiva. Il capo d’imputazione è paradossale: stiamo parlando di un posto che ha pagato per anni regolarmente il canone di affitto. Virginia Raggi in campagna elettorale aveva promesso di sventare sgomberi come questo e mettere mano alla faccenda. All’impegno della sindaca era seguito, nello scorso mese di agosto, un ordine del giorno votato in assemblea capitolina che sollecitava un nuovo regolamento. Da settimane si rimpallano la questione gli assessorati competenti: la cultura, il patrimonio e il bilancio.

«Registriamo che per l’ennesima volta a essere muta è la politica e il governo di Roma – protestano gli attivisti del cartello Decide Roma, che da tempi non sospetti ha posto la questione pubblicamente – Questo sgombero è solo l’ennesimo tassello nel disegno di una città in cui a governare continuano a essere i giudici e la magistratura contabile. Si potrebbero trovare soluzioni per salvaguardare realtà diverse tra loro, dagli spazi sociali a quelli associativi, fino a quelli dove si svolgono attività culturali e ricreative. Ma si lascia che a parlare siano sono le carte bollate e la burocrazia».

Per Stefano Fassina, deputato e consigliere comunale di Sinistra per Roma, «si sta prefigurando uno scenario inquietante». «Sono ormai decine le realtà che operano in ambito culturale e sociale sgomberate o che rischiano lo sfratto nei prossimi giorni – prosegue Fassina – Nel corso della discussione sul bilancio capitolino presenterò un ordine del giorno per chiedere una sospensione degli sfratti in attesa di un regolamento per l’uso sociale del patrimonio capitolino». giu.sa.