Il lungo cammino verso la libertà del Sudafrica non è ancora finito oppure per alcuni comincia in questi giorni con la rimozione dei simboli più manifesti e controversi del passato coloniale, quali le statue di personaggi storici che hanno fatto la storia del colonialismo e dell’apartheid.

Sopravvissute al momento topico della liberazione dal regime bianco – nel 1994 con le prime elezioni libere e l’elezione di Nelson Mandela primo presidente nero del Paese – cominciano a essere divelte ora (a circa vent’anni dalla fine del regime di segregazione) con un colpo di coda anacronistico sull’onda delle proteste di giovani studenti universitari.

La prima a cadere è stata quella di Cecil Rhodes, imperialista britannico della fine dell’800 e magnate della compagnia mineraria De Beers. Giovedì scorso, tra gli applausi e l’euforia di studenti neri e bianchi e le proteste di cittadini bianchi, la statua è stata divelta dal sostegno da cui per anni ha sovrastato l’entrata dell’University of Cape Town (Uct).

La decisione del senato accademico che ha espresso parere positivo al trasferimento in altro luogo – un deposito dove verrà preservata in attesa di un da farsi da parte probabilmente delle autorità – è arrivato dopo settimane di proteste nel campus universitario (con atti di vandalismo annessi quali l’imbrattamento con escrementi umani) e una campagna che ha viaggiato su twitter, #Rhodesmustfall.

Manifestazioni che hanno innescato reazioni simili anche per altri simboli del passato colonialista, come la statua di Louis Botha – afrikaner, ex primo ministro dell’allora Unione del Sud Africa – imbrattata con vernice a espressione del risentimento contro l’ineguaglianza ancora più che latente nell’odierna società multiculturale sudafricana.

Povertà, disoccupazione (al 60% quella giovanile), diseguaglianza nell’accesso alle risorse economiche e all’istruzione che sfavoriscono la maggioranza nera del Paese restano problematiche di spessore. E rappresentano la lunga appendice di un passato recente (quello del regime di minoranza bianca) le cui politiche economiche e sociali sono state strategicamente sviluppate da architettare condizioni di diseguaglianza che si sono reiterate in maniera frattalica.

Le statue rappresentano questo per gli studenti universitari, il simbolo (anacronistico) di un presente che soffre forme di razzismo diffuse.

«Sono brutti ricordi e vanno distrutti», dice Solomon C., di Gugulethu (una delle tante baraccopoli nei dintorni di Cape Town), guardiano di uno stabile in città.

Non mancano però voci contrastanti. «Perché proprio ora? Perché tutta questa fretta ora?» ci dice Connie, una giovane donna nera di Khayelitsha (un’altra baraccopoli). «Se Rhodes è stato un oppressore, sono d’accordo che la sua statua venga rimossa, anche se lui non si è sporcato le mani nel periodo dell’apartheid. Ma sono per una rimozione democratica, cioè che non venga distrutta ma portata in un museo. L’apartheid è finita con riconciliazione e poi questo Rhodes appartiene a un passato ancora più lontano».

Riconciliazione, sì, ed è proprio con questo spirito e con questa prospettiva fortemente perseguita da Mandela che stride la rabbia dei giovani universitari, molti dei quali sono born free cioè nati liberi nel post-apartheid. Ma che del regime dell’apartheid hanno ereditato un retaggio politico-economico che il governo dell’African national congress (Anc) non ha saputo affrontare e che le nuove generazioni sono impazienti di sradicare.

Di diversa opinione, rispetto a quella dominante tra gli studenti dell’Uct è invece un’altra studentessa universitaria, coloured, non born free, Gwen M., impiegata di un’azienda di servizi. Ci ha detto: «Penso che distruggere le statue, questi simboli del colonialismo, non serva a cambiare le cose. Distruggendo queste memorie del passato corriamo il rischio di ripetere gli stessi errori. La gente sta concentrando le proprie energie su false problematiche, invece che sui problemi reali e sull’incapacità del governo di affrontarli».