Vi sono opere d’arte contemporanea che hanno bisogno del museo quale conditio per poter essere lette dall’osservatore: lo spazio neutro consente di percepirne la carica espressiva, formale o concettuale, azzerando tutte le interazioni ambientali (è il famoso white cube di cui ha scritto Brian O’Doherty). All’opposto, le opere site-specific fanno del contesto uno degli elementi costitutivi, poiché reagiscono a partire dagli stimoli derivati dalle particolarità, fisiche, dimensionali o architettoniche, del luogo. La pregevole mostra di Sol LeWitt. Between the Lines – curata da Francesco Stocchi e Rem Koolhaas, e ospitata a Milano alla Fondazione Carriero fino al 23 giugno – dimostra invece come vi sia una terza via, raccontando, attraverso una selezione di lavori dell’artista, in che modo le opere stesse possano riformularsi, adattarsi, cambiare le modalità di ricezione.
La mostra apre con Wall Drawing #263, un disegno su muro costituito da sedici quadrati ciascuno dei quali dotato di un numero crescente di linee, ma, data l’architettura dello spazio, il visitatore è messo nella condizione di cogliere l’opera solo dopo aver visto un piccolo giardino verticale attraverso le finestre all’inglese. È così che il lavoro assume la forma di un inatteso dittico denso di rimandi tra i due elementi. Come scrive Stocchi in catalogo, «se l’opera di Sol LeWitt è sensibile alle caratteristiche dello spazio che la ospita, in questa sede diviene interessante concepirla come collante dell’architettura, più che come risposta a essa». L’opera stessa, dunque, è generatrice di un cambiamento di prospettiva visiva del contesto, poiché contribuisce ad alimentare la dinamica dello sfondamento parietale.
Benché fortemente interessato alle tre dimensioni e a definire le volumetrie degli spazi, Sol LeWitt (1928-2007) è l’artista che, più di tutti, ha fatto del muro elemento costitutivo e spazio di destinazione privilegiato delle sue opere, essenzialmente sotto forma di disegni geometrici. I suoi lavori – come egli stesso teorizzava alla fine degli anni sessanta in testi, capisaldi dell’arte concettuale, come Paragraphs on Conceptual Art e Sentences on Conceptual Art – sono dei progetti alla cui esecuzione egli è sempre stato estraneo: sono regole astratte e istruzioni pratiche insieme, nelle quali è fondante l’approccio ideativo rispetto alla pratica realizzativa diretta. Tale modalità non solo rompe i canoni che fino ad allora avevano definito l’autorialità e l’unicità del manufatto artistico (in forma autografa), ma trasforma l’artista in una sorta di fonte normativa dell’opera: «l’artista – scrive Sol LeWitt – deve accettare diverse interpretazioni del suo progetto; il progettista intuisce il progetto dell’artista e poi lo riordina in base alla sua esperienza e alla sua comprensione». Non solo l’opera non è unica, ma può contenere in sé notevoli differenze – come ad esempio mostra il Wall Drawing #51 – la cui ragion d’essere è l’interconnessione di tutti gli angoli del muro generati dall’architettura e dagli elementi funzionali della parete, che naturalmente variano a seconda del contesto. Nella concezione di LeWitt tale tipologia di opere sono razionali dispositivi di senso in grado di subire modificazioni, di muoversi e di svilupparsi in base alla complessità dell’ambiente. Sono cioè elementi vitali che adottano strategie di proliferazione non dissimili da quelle espresse dal mondo vegetale.
Le stanze del primo piano ospitano sculture di media e grande dimensione, tra cui i celebri Open Cube (che sintetizzano la figura geometrica con l’elisione di alcuni degli spigoli lasciandone inalterato l’ingombro volumetrico), e svariate Structure realizzate in legno o in tela. Sono veri e propri modelli ideali che esemplificano gli elementi compositivi primari, depurati da ogni forma di soggettività grazie alla costruzione di rapporti geometrici e spaziali minimali. Nell’ultima sala espositiva, invece, le relazioni tra ambiente e opera acquisiscono un che di sorprendente: non solo per il rimando tra gli specchi barocchi in situ e quello che costituisce l’opera Wall Drawing #1104 (una griglia nera disegnata sulla superficie riflettente), ma anche per il raddoppio illusionistico degli spazi che la presenza dello specchio stesso comporta, cui non si sottrae la torre metallica 8x8x1 a moduli quadrati.
Guadagnare l’uscita è poi l’occasione per rivedere l’intervento murale sul vano delle scale da un’altra prospettiva, perdendosi tra centinaia e centinaia di righe verticali realizzate a matita, in un mantra dal sapore ipnotico. Conviene tenersi ben assicurati al corrimano: con tale semplice e imperfettibile bellezza si rischia di inciampare.