Intorno alla metà del Duecento un intellettuale di nome Gregorio, probabilmente inglese, ben introdotto alla Curia pontificia di Roma, redige una descrizione della città eterna che trasuda ammirazione stupefatta per la bellezza dei suoi monumenti ma ignora completamente ogni edificio cristiano, e menziona anzi più volte con disappunto le distruzioni di templi pagani compiute dai papi. Si innamora della Venere capitolina, a quel tempo ancora soffusa di rossore sul volto, e cita la bellissima poesia di Ildeberto di Lavardin in cui Roma diventa, come rimarrà in un intero filone moderno di «poesia delle rovine», simbolo di grandezza passata e perduta, non superabile e non recuperabile. Gregorio ci guida fra colonne coclidi e archi di trionfo cercando di identificarne le figure sulla base delle sue cognizioni o delle sue congetture, che lo portano a scambiare per una vedova supplice l’allegoria della provincia sconfitta inginocchiata davanti a Traiano e ad accodarsi all’opinione vulgata che vedeva nel cavaliere di bronzo del Laterano, poi identificato in Marco Aurelio, l’imperatore Costantino: equivoco che aveva però salvato la statua dalla fusione imposta ad altre opere d’arte per ricavarne metallo pregiato. Il fraintendimento identificativo è dovuto sostanzialmente all’assenza di indicazioni scritte attendibili che spieghino chi è la persona rappresentata. Lo invocava già nell’VIII secolo Teodulfo d’Orléans in un passo dei Libri Carolini (il più grande trattato medievale sul valore culturale dell’immagine, ancora privo di traduzione italiana): se vedo dipinta una madre con un bambino in braccio, come faccio a sapere se si tratta della Madonna con Gesù bambino o di Venere con Enea? Solo un’iscrizione può dirimere l’incertezza.

Associare fonti scritte e visive

Questa capacità di associare fonti scritte a fonti figurative (e archeologiche) sta diventando ora un requisito dell’indagine storica medievistica, ma si tratta di un metodo che richiede multiple conoscenze disciplinari e linguistiche e pochi sono in grado di dominarlo. Fra questi Chiara Frugoni, antesignana della ricerca iconologica fin dai suoi studi del 1967 sull’immaginario della danza macabra, ripresi un anno fa nel libro Senza misericordia, scritto con Simone Facchinetti a proposito degli affreschi di Clusone, per culminare con i fortunati volumi sulle diverse rappresentazioni di san Francesco. Ora alcuni dei suoi temi preferiti sono sviluppati in maniera esemplare (cioè con competenza unita a semplicità e leggerezza di comunicazione) in Vivere nel Medioevo Donne, uomini e soprattutto bambini (il Mulino, pp. 318, € 40,00). Le decine di tavole a colori in ottima definizione che lo corredano sono uno strumento decisivo per le ricerche iconologiche, che solo fino a pochissimi anni fa gli editori non si potevano permettere e che migliora in modo sostanziale la comprensione del lettore, anche se dimensioni e misure del libro a stampa costringono gli impaginatori a fare i salti mortali per collocare le illustrazioni il più vicino possibile al passo cui si riferiscono – e non sempre ci riescono.

Di Maestro Gregorio la Frugoni parla nel capitolo finale, dedicato ai viaggi, tema battuto come pochi altri dalla saggistica sul medioevo, dove però, dopo aver scontato le usuali ma necessarie informazioni di base su motivazioni, corredo e funzionamento dei pellegrinaggi, riesce a mettere in luce aspetti più inconsueti, come le condizioni del traffico cittadino e le modalità di smaltimento dei rifiuti (andando a pescare un bando per appalto pubblico del Comune di Siena risalente al 1296). Ma la parte più consistente del volume è dedicata alla famiglia: a un divertente capitolo sulle funzioni e raffigurazioni del letto nelle case medievali seguono pagine preziose sul bambino, dalla culla allo sviluppo alla scolarizzazione e ai giochi, che andrebbero associate al classico Il bambino medievale di Angela Giallongo (Dedalo 1990, seconda edizione 1997). Il percorso sfocia, prima di lasciarci al viaggio, in un bel capitolo sulla condizione quotidiana delle donne, tema apparentemente arato quant’altri mai negli ultimi anni, a proposito e a sproposito, e anche qui la Frugoni conferma la tendenza a liberarsi dei cliché nel riconoscere le possibilità di studiare (e di assumersi responsabilità politiche, all’occasione) che il medioevo concedeva alle donne assai più dell’antichità greco-romana.

Paradigmatica a questo proposito la citazione di Virginia Woolf, che in Una stanza tutta per sé (1929) delinea per la donna del ventesimo secolo un ideale di autosufficienza economica e tempo per lo studio sorprendentemente vicino allo stile di vita praticato dalle donne medievali nei monasteri, spesso in forme di consacrazione molto ammorbidite e «aperte» (si pensi alla Rosvita «canonichessa», autrice di opere teatrali nel X secolo). E va alla ricerca di testimonianze e manufatti artistici non delle personalità femminili più conosciute e documentate, come Ildegarde o Eloisa, ma di semplici ricamatrici, copiste o maestre, commentando infine con un accento di tenerezza l’immagine di tre monache dipinte in un manoscritto senese del 1460, una delle quali guarda dalla finestra la neve che cade, l’altra si scalda al caminetto acceso e la terza prende dalla tavola apparecchiata una bottiglia di vino, in un ambiente dai muri rosa incorniciato da decorazioni floreali che non ha nulla delle tonalità cupe e carcerarie attribuite da certa pubblicistica alla condizione monastica.

I capitoli sul letto e l’infanzia sono ricchi di curiosità legate a usi conservatisi nell’era moderna, come il dono di un diamante alla fidanzata, l’abitudine di stratificare i materassi (che richiama la Principessa del pisello), lo sculacciamento per aprire le vie respiratorie dei neonati o punire i discoli, gli amuleti di corallo, il biberon (allora di corno), le ninne nanne, il gioco del volano, le merendine date in premio agli scolari diligenti, le bambole spoglie o abbigliate, le bocce e l’altalena, le girandole e i palloncini (ma anche i salvagenti) ricavati dalle vesciche di maiale, la lippa e la pentolaccia e chi più ne ha più ne metta. Tutti questi dettagli ci vengono svelati con sguardo acuto in miniature, placche metalliche, tavole e affreschi (confrontate con iscrizioni, poemetti, lettere private e prediche ecclesiastiche) per lo più basso medievali e anche rinascimentali: il «Medioevo» del titolo va inteso infatti a partire dal XIII-XIV secolo, una riduzione di focus frequente e quasi inevitabile ma rischiosa, come capitò anche al grande Le Goff quando attribuì al XIII secolo l’«invenzione» del Purgatorio e delle preghiere per alleviare le pene di chi vi finiva, attestati invece abbondantemente fin dal VI secolo.

La pala di Santa Gertrude a Nivelles

Particolarmente spettacolare nel lavoro della Frugoni l’estrazione di dati, spesso difficilmente ricavabili a un occhio poco esercitato, da manufatti meno familiari al grande pubblico come la pala di santa Gertrude a Nivelles o il trittico di Quentin Matsys a Bruxelles, entrambi di inizio Cinquecento, coloratissime foto di gruppo della famiglia allargata di Gesù (Maria sua madre e le di lei sorellastre Maria di Cleofe, con Alfeo e i quattro figli, e Maria di Salome con i due figli e il marito Zebedeo); oppure la Madonna della Pergola di Bernardino Detti (al Museo Civico di Pistoia), autentica vetrina di amuleti, giocattoli e souvenir, compreso un teatrino miniaturizzato sullo sfondo. A questi si aggiunge, fra tanti altri materiali, una decifrazione analitica, a mo’ di mappa digitale, del celebre quadro di Peter Brueghel su circa 80 Giochi di bambini (1560), ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il tono del libro, affabile anche quando parla di aspetti drammatici della vita familiare, si materializza in un delizioso calendario-strenna allegato al libro: la dimensione domestica del (tardo) Medioevo entra nella realtà domestica del 2018.