Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte interverrà nell’aula del senato per le sue comunicazioni sulla crisi martedì prossimo, 20 agosto. Sarebbe questa la notizia, definitiva e semplice, se Salvini non avesse deciso di fare una battaglia anche su questo passaggio, in realtà obbligato dopo la sua decisione di togliere la fiducia al governo. Ma il ministro dell’interno, che non si è ancora dimesso malgrado potrebbe in questo modo provocare la caduta del governo che invoca (dice però di essere «pronto a tutto»), studia le mosse in funzione di una campagna elettorale che, breve o lunga che sia, ha già aperto. Per questo è lui che costringe i senatori a tornare in aula, oggi pomeriggio, anti vigilia di ferragosto, per confermare la decisione che ieri la conferenza dei capigruppo ha già preso a maggioranza. La conferma è abitualmente automatica: si tratta infatti di un altro voto a maggioranza. Ma stasera al popolo in vacanza sarà servita la notizia che il centrodestra è tornato unito e i 5 Stelle hanno votato con il Pd e la sinistra. Su una banale questione procedurale: il centrodestra chiede infatti di mettere in votazione domani stesso, prima delle dichiarazioni di Conte, la mozione di sfiducia che ha presentato la Lega. Domani o – assai più probabilmente – martedì prossimo, il governo gialloverde sarà comunque finito.

La conferenza dei capigruppo del senato, ieri pomeriggio, è stata molto tesa. Il capogruppo del Pd Marcucci e la capogruppo di Leu De Petris hanno accusato la presidente del senato Casellati di grave scorrettezza. Ieri mattina, infatti, aveva anticipato l’intenzione di convocare l’aula nel caso – certo – non si fosse raggiunta l’unanimità tra i rappresentati dei gruppi. Lo prevede il regolamento, che però fa riferimento alla prima seduta utile e non a una seduta apposita, convocata solo sul calendario e senza il necessario preavviso durante la sospensione dei lavori per ferie. Il regolamento del senato stabilisce al contrario che il preavviso per le convocazioni «a domicilio» sia di cinque giorni. E così tra ieri sera e stamattina i senatori cercheranno di fare precipitoso ritorno a Roma, quelli di centrodestra – per candida ammissione dei capigruppo – erano già stati informati della convocazione straordinaria. Alla presidente del senato, che è di Forza Italia ed è stata già attaccata per una conduzione dei lavori sbilanciata in favore di Salvini, è stato fatto notare che chiamare l’aula con poche ore di anticipo significa escludere consapevolmente molti senatori, sicuramente tutti quelli eletti all’estero. «Non è un mio problema», è stato il tono della replica. Pd, 5 Stelle e Misto hanno sulla carta uno scarto (172 senatori a 143) sufficiente ad assorbire le prevedibili assenze (ieri grillini e dem calcolavano 150 presenti sicuri).

Un po’ di apprensione sui numeri comunque c’è. Quel che importa è che non saranno sei giorni in più, il 14 o il 20 agosto, a cambiare le sorti della crisi; appena più rilevanti saranno le mosse di Conte, che prepara un discorso molto duro contro la Lega e si dimetterà prima del voto di sfiducia, nella speranza di poter tornare utile a breve. Non cambierà molto nemmeno se Salvini, com’è possibile, dovesse decidere di dimettersi assieme a tutti i ministri della Lega (sette in totale) se stasera dovesse essere confermata la data del 20 agosto per l’ultimo atto di Conte. Non c’è più tempo per nessuna accelerazione. Il ministro dell’interno avrebbe dovuto rinunciare prima all’incarico e ai suoi tour elettorali in missione da capo del Viminale (ne ha in programma anche a ferragosto). L’unica differenza sarà che Salvini potrà aggiungere un argomento retorico nei comizi, dirà che non ha avuto paura di dimettersi.

Stasera alle 19, una volta nota la decisione del senato, si riunirà anche la capigruppo della camera. Montecitorio non avrà un ruolo centrale nell’ultimo atto dell’esecutivo, tutto potrebbe svolgersi esclusivamente al senato. Ma è alla camera che i 5 Stelle stanno cercando di calendarizzare, subito, il voto finale sul taglio dei parlamentari. Al punto in cui siamo è l’unica garanzia di rinviare le urne dall’autunno alla primavera. Ma non ci riusciranno, la riforma costituzionale non può trovare spazio prima che la crisi si compia. Eppure, sfortunatamente, la riduzione dei parlamentari (da 945 a 600) non scomparirà dall’orizzonte. È la pietra angolare di tutte le architetture istituzionali che si sta immaginando in queste ore per tenere in piedi la legislatura.