L’ornamento è un delitto, scriveva Adolf Loos. È quasi inevitabile pensare al profetico architetto austriaco, a un certo punto della creazione che Romeo Castellucci ha presentato in uno degli spazi di DumBo. Si intitola La vita nuova e arriva a Bologna all’interno degli eventi di Art City (se ne è parlato domenica scorsa sulle nostre pagine), a poco più di un anno dal debutto a Bruxelles. DumBO è un acronimo che sta per «distretto urbano multifunzionale» ovvero viene definito dagli organizzatori come uno «spazio di rigenerazione urbana temporanea» dedicato alle attività culturali.

IN EFFETTI si tratta di una serie di capannoni nell’area di un ex scalo merci di proprietà delle Ferrovie. Quello dove ci troviamo, freddo e scomodo come in altri tempi si usava frequentare, è chiamato Binario centrale. Il lungo capannone è immerso in una luminosità nebbiosa. Da dove siamo non se ne vede il fondo. Si vedono invece quattro file di automobili, uniformemente avvolte da un telo di copertura. Nel mezzo, uscito da qualche parte, è comparso un uomo alto dalla pelle scura, vestito con una tunica bianca. Da lontano sembra venire anche il suono che lentamente va crescendo d’intensità. Come l’eco di una percussione. Altri quattro uomini hanno raggiunto il primo. Simili a lui, altissimi e dalla pelle scura, vestiti con la medesima tunica bianca. Recano una lunga pertica dorata con cui si scambiano un grande anello metallico.

QUANDO emergono in primo piano, con lento passo rituale, quel ramo d’oro viene piantato di fronte agli spettatori. Come a marcare un territorio. Come se quell’immobile garage fosse un bosco sacro, o un suo correlativo contemporaneo, in cui si aggirano da profetici rabdomanti, celebranti di un culto a mezzo fra pratica magica e religiosa. E lo sguardo corre ai sandali femminili che portano ai piedi, con i tacchi che li fanno ancora più alti. Poi lo spazio si oscura in un tempestoso bagliore dei neon che l’illuminano dall’alto. Nel tessuto sonoro inventato da Scott Gibbons si innesta il suono dei clacson. Le automobili vengono spinte un po’ più lontane, perdendo l’ordine stabilito. Soltanto una resta in primo piano. Denudata della propria copertura. Girata su un fianco e fatta ruotare dai cinque interpreti che intorno a essa continuano la loro ieratica performance gestuale. Ma più che quello che fanno, conta come lo fanno. La loro concentrazione che sembra prescindere da qualsiasi emozione. Anche nell’abbraccio che si scambiano.
Qualcuno poi mi citerà Holy motors, il raffinato film di Leos Carax. A proposito di quella macchina rovesciata e non solo. Ma forse soprattutto non si è lontani dal linguaggio sviluppato nella Tragedia Endogonidia che impegnò a lungo il regista nel primo decennio del nuovo secolo, quasi che il teatro di Romeo Castellucci conservi una sorta di «memoria di forma» di quell’esperienza.

E ADOLF LOOS, allora? A un certo punto, si diceva, uno di loro rompe il silenzio dei gesti. Qui non c’è libertà, inizia a dire. La libertà si trova nei posti, non nelle menti. È un testo scritto da Claudia Castellucci. Un sermone contro l’arte inutile. La rivendicazione dell’artigianato sull’arte, degli artigiani che fermano il conformismo degli artisti. Evoca la vita nuova del titolo, dietro cui è trasparente il richiamo al pensiero del filosofo Ernst Bloch. Una vita nuova in cui «siamo già», immersi in un tempo senza fine. Il numero degli artisti sta aumentando, ma è l’arte mercificata in mostra nelle esposizioni contemporanee. Anche qui c’è arte, ma non c’è rappresentazione, non c’è insegnamento, nel garage notturno. C’è soltanto decorazione e ornamento. Coloro che rotolano l’auto (ora si è acceso il motore ma non produce movimento) sono gli artigiani stanchi di lavorare senza godere dei frutti del loro lavoro – così ci dice La vita nuova. E mentre usciamo nel freddo ripensiamo dubbiosamente all’architetto austriaco che attaccava la Secessione viennese.