Il film di Leonardo Di Costanzo interroga cosa resta della possibilità di riprendere a condividere lo spazio del sociale. Il senso, in fondo, è quello di una «ricostruzione» che inizi dal basso. Una riappropriazione del territorio. Definirne non tanto i confini quanto la possibilità di questi di continuare ad accogliere coloro che li varcano e, al tempo stesso, non chiuderli ma ampliarli.
Leonardo Di Costanzo, procedendo nel percorso di essenzializzazione del suo cinema, asciugando ulteriormente il suo approccio rispetto a L’intervallo, crea un autentico dramma morale, un vero e proprio conflitto etico. L’intrusa, un film teso e preciso, duro, che sfida le leggi della gravità del pensiero politico dominante affacciandosi sul precipizio lì dove il buon senso della sinistra salottiera cede il passo, osa mettere in scena un conflitto che non ci pare fuorviante definire rosselliniano con un approccio severo, eppure intimo, che sembra aspirare a una rarefazione assoluta.

Di Costanzo non cede alla banalità di realizzare un film con un soggetto «sociale», «politico». No. Di Costanzo mette politicamente in scena quel che è soprattutto un conflitto umano, di classe. Nello spazio del cortile organizzato da Giovanna (Raffaella Giordano), popolato dai bambini delle famiglie che sperano in questo modo di sottrarre i loro figli alle tentazioni della manovalanza camorrista, s’introduce Maria (Valentina Vannino, attrice non professionista), la moglie di un killer insieme alle sue due bambine. Il risentimento delle altre donne è immediato. Ognuna di loro è stata toccata dalla violenza criminale e tutte intendono dimostrare a Maria che per gente come lei nello spazio «loro» non c’è posto.

Un’esclusione invoca l’altra. Giovanna tenta invano di far comprendere che lo spazio condiviso è tale perché è (dovrebbe) essere inclusivo e non esclusivo.
Mettendo in scena un’aporia nella quale «tutti hanno ragione» come luogo della narrazione che si incarna in un vero e proprio spazio sociale da condividere, Di Costanzo salta tutte le false problematiche del cosiddetto cinema dell’«impegno».

Ne L’intrusa la posta in palio è sempre sotto gli occhi dello spettatorre: è lo sterrato dove i bambini giocano e costruiscono un grande mostro con i resti di biciclette. Uno spazio che è uno spazio sociale da ripopolare. Il punto, ovviamente, è il come. E lui si guarda bene dallo spiegare cosa e come si dovrebbe fare. Semmai osserva come i suoi protagonisti, presi dai meccanismi dei loro discorsi, risultino in fondo «parlati» piuttosto che parlare. E questo girare a vuoto del discorso procede progressivamente a svuotare lo spazio del campo – dove si svolgono i giochi dei bambini – che è poi l’oggetto conteso.

Il regista (coadiuvato in fase di scrittura da Bruno Oliviero e da Maurizio Braucci) si conserva in un magistrale equilibrio: il non incontrarsi provoca una lacerazione vera. E nelle immagini si può letteralmente ascoltare il rumore prodotto da questa lacerazione del tessuto sociale: il mancato incontro della parola e delle idee provoca il vuoto. La forza del film sta tutta nel suo organizzare visivamente questa progressiva erosione dello spazio possibile.
Il finale, dolorosissimo, non porta nessuna conciliazione. Tutto resta assestato sulle posizioni iniziali. La festa è soltanto il simulacro di un atto mancato. Il segno di un incontro che non c’è stato e che forse non ci sarà.

Di Costanzo osserva il venire meno di una comunità a partire dalle «migliori intenzioni». E in questo senso si rivela essere l’interprete più acuto e preciso dello smarrimento che affligge oggi il Paese. L’intrusa, da questo punto di vista, è davvero un ritratto di una donna in lotta con il suo tempo e con il suo Paese, come forse solo Rossellini ha saputo comporre con altrettanta precisione.
A Di Costanzo basta pochissimo per dare corpo a un cinema asciutto e lucidissimo, in grado di osservare il conflitto permettendogli di respirare, senza imporgli soluzioni preconfezionate. L’intrusa: cinema del nostro tempo.