La voce profonda, indimenticabile, che sapeva modulare come quella di Orson Welles, la vulnerabilità devastante delle sue espressioni, l’istinto infallibile per la verità dei personaggi, la grazia di un grandissimo attore che sceglie di comportarsi come un caratterista, Philip Seymour Hoffman è morto d’improvviso domenica a New York. Aveva quarantasei anni. Il suo cadavere è stato trovato, in tarda mattinata, da un amico sceneggiatore, David Bar Katz, nel bagno di un appartamento che Hoffman usava come ufficio nel West Village, il quartiere in cui viveva con la sua famiglia: la compagna costumista Mimi O’Donnell e i loro tre bambini. Secondo le prime dichiarazioni rilasciate dalla polizia e immediatamente rimbalzate online insieme a una tempesta di tweet più o meno opportuni/opportunistici, il decesso è stato causato da un’overdose di eroina. Poche ore dopo (mentre una piccola folla si era raggruppata di fronte all’edificio di Bethune Street, dove è stato trovato il suo corpo) sono arrivate anche le descrizioni della scena: bustine siglate Ace of Spades e Ace of Heart, medicinali vari…una siringa ancora nel braccio. I risultati dell’autopsia sono attesi nei prossimi giorni – intanto ieri gli agenti hanno fatto sapere di avere trovato 50 bustine di eroina.

L’attore, recentemente apparso a Sundance per promuovere il film di John Slattery God’s Pocket, e per la proiezione del nuovo lavoro di Anton Corbjan, A Most Wanted Man, l’anno scorso aveva trascorso dieci giorni in una clinica di disintossicazione e aveva ammesso una dipendenza da eroina e farmaci. Anche all’inizio della sua carriera la droga e l’alcol erano stati un problema, Hoffman aveva raccontato in alcune interviste di quel suo passato. Ma la notizia della sua morte è stata accolta, oltre che da costernazione enorme in tutti gli ambienti del cinema e del teatro americani, da una quasi sorpresa. I nomi non sono ancora stati fatti…. ma i fantasmi di Heath Ledger e River Phonix aleggiano nell’aria.

Presenza preziosissima del cinema indipendente americano degli ultimi vent’anni, Hoffman era conosciuto in città anche per il suo lavoro in teatro. Solo nel 2012 aveva superato brillantemente «il» grande rito di passaggio di Broadway, interpretando Willy Loman nel più recente dei revival di Morte di un commesso viaggiatore, per la regia di Mike Nichols con cui nel 2001 Hoffman aveva già lavorato in un allestimento de Il gabbiano al Delacorte Theater di Central Park. Tra le altre sue apparizioni più famose sul palcoscenico, Long Day’s Journey into Night (al fianco dei giganti Vanessa Redgrave e Brian Dennhey) e True West, la pièce di Sam Shepard in cui Hoffman e John C. Reilly si alternavano nei ruoli dei due fratelli protagonisti, Austin e Lee. Sempre a New York, Hoffman è stato anche direttore artistico della Labyrinth Theater Company, per cui ha diretto – e recitato – in produzioni Off Broadway.

Al cinema, Paul Thomas Anderson lo ha usato come un talismano in quasi tutti i suoi film, a partire dall’esordio, Hard Eight, dandogli nomi bizzarro/misteriosi come Phil Parma (Magnolia), Dean Trumbell (Ubriaco d’amore), Scotty J. (Boogie Nights) e l’ipnotico ruolo del «guru» Lancaster Dodd in The Master, magnifico duetto tra Hoffman e Joaquim Phoenix in cui l’interpretazione generosa, ancorante, del primo rende possibile e plausibile quella spericolata del suo fragile seguace/antagonista.

Attore di raffinatissimo dettaglio, capace di calarsi completamente nei suoi personaggi (e soprattutto in ciò che di loro era indicibile o segreto), Hoffman sembrava preferire uno stile di recitazione meno vistoso, più introspettivo, di quello dettato dalla scuola immersiva dell’Actors Studio. Nominato più volte (come miglior non protagonista per La guerra di Charlie Wilson, Il dubbio e The Master), l’Oscar di migliore attore lo prese interpretando Truman Capote nel film omonimo di Bennett Miller (lavorò con il regista anche in L’arte di vincere e in Foxcatcher, atteso per quest’anno).

E in un lungo elenco di autori importanti con cui ha collaborato nel corso degli anni, ci sono Robert Benton (La vita a modo mio), i fratelli Coen (Il grande Lebowski), Todd Solondz (era il masturbatore patologico di Happiness), Cameron Crowe (il promoter musical Lester Bangs in Almost Famous), Charlie Kaufman (Synedoche, New York) e Sidney Lumet (Onora il padre e la madre). Già da Twister (1996), molto prima quindi che gli attori indie diventassero una presenza fissa nel cinema d’azione ad alto budget, Hoffman aveva provato di saper alzare la posta in una grande produzione hollywoodiana. Tra quelle a cui ha portato il suo talento, Mission: Impossibile III e Red Dragon. Nel 2013 ha interpretato Plutarch Hevensbee in The Hunger Games: la ragazza di fuoco. Le riprese della prima e seconda parte del capitolo conclusivo della trilogia di Suzanne Collins erano ancora in corso al momento della sua morte. I film usciranno nelle date previste (il prossimo autunno e nel 2015) ha dichiarato già domenica sera la casa di produzione Lionsgate.