Esattamente 40 anni fa, il 28 ottobre 1977, arrivava nei negozi Never Mind The Bollocks Here’s the Sex Pistols (Virgin), il primo e unico album dei Sex Pistols. Quello che cambia la storia del rock e la nostra vita. Semplice? Non proprio. La genesi di quel disco è un evento quasi unico, complesso e altamente caotico. In origine la data d’uscita era programmata per il 4 novembre 1977 ma la Virgin decise di anticipare di una settimana perché la Barclay Records, l’etichetta francese con cui Malcolm McLaren, manager della band, aveva firmato un contratto di distribuzione in Francia/Belgio, stava inondando di copie import il mercato inglese. Anche la data ufficiale pone diverse questioni: alla Virgin sembrano, infatti, non ricordare che quel 28 ottobre, di prima mattina e a solo un’ora dall’uscita del disco, alcuni distributori britannici avevano informato la casa discografica che non avrebbero continuato con la distribuzione dell’album nei negozi per via dei contenuti dei pezzi e del titolo (bollocks, coglioni). In fretta e furia Richard Branson decise di rimandare l’uscita al 30 ottobre ma solo in alcuni punti vendita Virgin. Il fatto che fosse domenica, giorno di chiusura dei negozi, non impedì comunque alla casa discografica – a forte rischio multa – di tirare su le serrande e procedere con la vendita.

Inoltre lo stesso album uscì prima con 11 pezzi (i Sex Pistols non si decidevano con la scaletta e Branson aveva fretta); poi a novembre con 12; con il retro copertina con e senza titoli; con un diverso colore dell’etichetta centrale, più una serie di errori tipografici (nelle lettere TB e S del titolo, fatti apposta dal grafico della band, Jamie Reid, e in seguito corretti in Francia e negli Usa!).

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Insomma una vertigine punk ben raccontata da: http://www.philjens.plus.com/pistols/pistols/pistols_nmtb.htm. E qui entra in scena John Varnom, 72 anni, maestro elementare, chitarrista, direttore creativo della Virgin dal 1972 al 1981, coinvolto al 100% nell’«operazione Sex Pistols» e al tempo braccio destro di Richard Branson.

«Mi ricordo tutto di quelle ore e non fummo multati! – dice -. La French Connection è interessante, Malcolm aveva un legame forte con Eddie Barclay e quell’improvvisa immissione di dischi import non avvenne certo per caso, fu una mossa di McLaren per guadagnare di più rispetto alle sole vendite della Virgin. Tutto molto divertente».

Al telefono Varnom è vivace e accurato. Racconta di non essere un collezionista («ogni tanto qualcuno mi manda una foto di un mio lavoro, ho un file sul computer») e di essere cresciuto con un padre che suonava il violino in un gruppo jazz. Ha ascoltato da Fats Waller a Rosemary Clooney, da Ella Fitzgerald a Chuck Berry, il suo eroe. «Quando do lezioni di chitarra – ricorda – continuo a insegnare i suoi assoli».

Ma soprattutto John Varnom ha un debole per l’Abruzzo che scopre con l’amico Trevor Key (fotografo, grafico) e rispettive fidanzate negli anni Settanta. «Ci venimmo in vacanza – dice – e restammo folgorati dal posto, in seguito ho comprato una casa al confine tra Abruzzo e Molise».

Continua: «Ho studiato filosofia all’università di Hull e a Manchester, poi mi sono trasferito a Londra perché era il centro del mondo e lì ho incontrato Richard Branson che dirigeva una rivista, Student; abbiamo fondato la Virgin nell’aprile del 1970; io ho ideato e scritto la prima pubblicità dell’etichetta, illustravo e scrivevo anche le lettere che spediva Richard, ho imparato la grafica sul campo facendo copertine ecc.; per 10 anni ho organizzato tutta la parte grafica della Virgin, sono stato responsabile dei jingle radiofonici, della pubblicità radiotelevisiva, dei comunicati stampa. Addirittura dalla ’V’ della mia firma Trevor Key ha sviluppato il logo della Virgin. Branson – con cui mi sono scritto di recente – si affidava totalmente a me. Potevo scrivevo nelle pubblicità e nei comunicati quello che volevo». Quale è stata la prima copertina a cui hai lavorato? «Tubular Bells di Mike Oldfield – continua -. Trevor Key ha fatto la foto e io l’ho aiutato a sviluppare l’idea».

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E della copertina di Never Mind the Bollocks Here’s the Sex Pistols cosa ricordi? «È noto – dice – che l’artwork è stata un’idea di Jamie Reid (grafico, artista situazionista). È lui che ha deciso i colori e quel tipo di lettere. Il titolo, invece, nasce da un’idea di Steve Jones, il chitarrista; il gruppo era in studio a registrare e Malcolm era in regia: continuava a dire ai Pistols, ’Fate questo, fate quello’. A un certo punto Steve Jones, sbotta, ‘Never mind the bollocks, Malcolm!’ Basta con tutte queste stronzate, andiamo avanti con la musica’, e da lì viene tutto. La cosa interessante è che Richard Branson e Malcolm non sono mai andati troppo d’accordo, io al contrario mi prendevo molto con Malcolm e con Jamie, passavo peraltro un sacco di tempo nell’ufficio di McLaren dove mi mettevo anche a lavorare – perché si stava meglio! – e se la Virgin aveva bisogno di me doveva chiamarmi lì; io ero l’intermediario tra la band e la Virgin, loro non parlavano o discutevano con nessun altro; una delle ragioni è che Malcolm si fidava di me perché avevo insegnato in una scuola elementare di Brixton dove insegnava anche Vivienne Westwood, la sua compagna, e questo due anni prima che si formasse il gruppo; quindi mi aveva conosciuto in un contesto diverso; allo stesso tempo Richard Branson si affidava a me per capire cosa stesse combinando la band. Ero esattamente in mezzo. Io, Jamie e Trevor Key abbiamo passato un sacco di tempo con i Sex Pistols, facevamo anche i radio tour insieme; oltre a essere rivoluzionari erano anche molto buffi e Malcolm in particolare».

Continua: «I Sex Pistols erano una band fuori dal comune, avevano un art director, e questo non succedeva con gli altri gruppi; negli anni all’art school, Malcolm e Jamie avevano fatto politica insieme, mi riferisco al situazionismo, quindi si conoscevano molto bene; quando Malcolm ha avviato i Sex Pistols ha chiesto a Reid di seguirlo; con loro la Virgin ha acquistato un pacchetto completo e questo è un caso unico; quando abbiamo messo sotto contratto i Pistols i ruoli erano già definiti: manager, art director e stilista, Vivienne Westwood; i gruppi di solito chiedono alle case discografiche un’idea per la copertina e a quel punto intervenivo insieme a Trevor Key e a Brian Cooke, il suo socio; in alcuni casi abbiamo autorizzato le copertine della Hipgnosis (nota per le copertine di Pink Floyd, Led Zeppelin ecc., ndr). Per quanto riguarda i Sex Pistols una mia idea è stata la foto della bambola di Sid Vicious nella bara sulla copertina della raccolta Some Product: Carri on Sex Pistols».

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Che ricordi hai dei singoli componenti dei Sex Pistols? «Ho subito avuto la sensazione – prosegue – che Johnny Rotten fosse una rockstar, uno che poteva diventare anche abbastanza arrogante; magari eravamo seduti per terra in un albergo, stavamo bevendo birra e lui ti diceva, ‘Prendimi una birra’. Allora lo mandavo a cagare e lì abbassava le penne; il gruppo era splendido, mi piaceva molto; Sid veniva nel mio studio e mi chiedeva sempre 5 sterline e anche in quel caso lo mandavo a cagare, ’Fattele prestare da qualcun altro’, gli dicevo; Paul Cook, il batterista e Steve Jones erano tranquilli e normali».

Quale è stata la persona più problematica con cui hai lavorato? Riparte: «Mike Oldfield, una persona introversa, taciturna, non era disponibile per le copertine, per fare le foto; stava sempre da solo; anche gli Henry Cow, gruppo prog rock, genere che non apprezzo, erano così pretenziosi, così poco divertenti».

C’è un artista, un genere a cui preferisci essere associato? «Quando abbiamo visto il successo di Bob Marley, Richard Branson ha deciso di inaugurare un’etichetta reggae. Io avevo insegnato a Brixton, il cuore giamaicano di Londra, e lì c’è una strada molto famosa, Railton Road (da cui si è propagata la rivolta dell’81, ndr) che i giamaicani chiamano ‘The Front Line’; dissi a Branson che avremmo dovuto chiamare così l’etichetta; allora ho disegnato il simbolo della label, quel pugno che stringe il filo spinato. Tutta la parte reggae della Virgin è stata una mia idea, nasceva dal mio rapporto con Brixton e con la sua parte black; sai, non è che i poliziotti fossero i miei migliori amici… Tra i musicisti con cui ho suonato la chitarra e con cui mi sono trovato molto bene c’è Linton Kwesi Johnson; ad esempio ho suonato su Dread Beat an’ Blood (uscito a nome Poet & the Roots, ndr), il suo album di debutto che ho anche prodotto; peraltro Johnny Rotten apprezzava molto Linton e mi chiese di organizzargli un incontro, poi sono diventati molto amici».

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Come hai vissuto gli anni del punk? Chiude: «La rivoluzione dei Sex Pistols è stata di riportare i ragazzi alla musica, di far capire che bastava poco per mettere su una band e andare a suonare in un locale. Come ai tempi del rock’n’roll quando a un amplificatore ci si attaccava in quattro. Il problema con la Virgin è che molti artisti – Henry Cow, Gong, Steve Hillage – venivano da contesti medio borghesi con famiglie – e questo è incredibile – che gli compravano gli strumenti e li supportavano economicamente anche quando si spostavano per andare a fare i concerti, un po’ come è successo con i Pink Floyd; il fatto è che se sei giovane e vuoi suonare, non ce la fai a mettere su un gruppo a meno che non hai i soldi per comprare strumenti, amplificatori ecc. Il punk ha ridato ai ragazzini la possibilità di suonare il rock, questo mi piaceva dei Pistols, era musica semplice, non ci volevano troppi soldi per cominciare».