Strano, in tempi di estrema diserbazione, compulsiva detersività della pratica di vita, a cui peraltro si stenta a rassegnarsi, continuando le comitive a ruzzare per le strade, tra i tavoli dei bar all’aperto, tra i corpi in fragranza di Tom Ford sotto i golf, i corsetti, i pizzi, nonostante l’incombere di questo nuovo fantasmatico virus; strano occuparsi di una serie che ha fatto della corporeità, della distanza ravvicinata tra i metabolismi, i fiati, i sistemi immunitari, tanto più giovanili, il suo punto di forza.

O forse non è affatto strano e anzi stringente, anche struggente: sintomo di una renitenza dell’umano, dell’umano incarnato, anche a costo di contravvenire all’etica, al concetto di bene comune, ecc., riflettendosi nel black mirror ma questa volta non per eccesso di virtualità, di tecnologia alienante, ma di ottusa, inebriante corporalità.

LA STESSA vigente nella seconda stagione di Sex Education, tra le cose più viste ultimamente su Netflix, che prende da subito la sostanza delle secrezioni, quelle di Otis, adesso, dopo le tante inibizioni autoerotiche della prima stagione, in balia della masturbazione, vista come esperienza insopprimibile e vitale, corrispettivo maschile della scoperta clitoridea, onanistica che Aimee Gibs aveva fatto nella prima stagione.

Compare, in totale, lattescente ostensione lo sperma, spicciato su un finestrino di un’auto e di lì l’evocazione di altri tabù della società contemporanea: il bukkake, la lavanda anale, la pillola del giorno dopo, che si aggiungono ai temi sviscerati nella prima stagione – la corretta, a-dentata fellatio, l’importanza dell’autoerotismo femminile evidentemente a-vaginale, non uterina, l’aborto ecc. – a mo di educazione delle nuove generazioni.

Non è, e non poteva essere, un proseguo all’insegna della novità, di chissà quale agnizione della trama originaria, bensì la coerente continuazione dell’azione educativa in fatto di sesso, iniziata con la prima stagione, da cui però si diramano interessanti epifenomeni, territori narrativi periferici, come la dipendenza dal sesso di Remi Miburn, padre di Otis, cialtrone e mistificatore della terapia sessuale; il risvolto romantico di quella che sembrava una catafratta, cinica donna votata al sesso occasionale, cioè Jean, madre di Otis; e soprattutto l’affiorare di una personalità ferita, fragile dietro la scorza punk di Meave, vero fulcro ed epifania di questa seconda stagione. Volto ipnotico, illuminato dalle vaste orbite degli occhi e dal pearcing al naso; gambe snelle e un poco storte che segnano un’andatura ora molto meno iattante che in passato, ma lirica, emotiva: bellezza insolita e raggiante che s’impone episodio dopo episodio mentre sconta la propria solitudine e lo scandalo, il non-senso della delusione amorosa.

E DI PARI PASSO va la colonna sonora ancora più ricca e stratificata che nella prima stagione, sostenendo i cambi di registro continui della serie: dalla commedia al ritmo veloce di situazioni scabrose e umoristiche, apoteosi di sessi, abnormi e contorti glandi, clitoriti stillanti, rappresentati anche sulle locandine che annunciano la recita scolastica, al dramma soffuso al ritmo lento di baci rubati, sguardi languidi, lacrimali, sparsi dai When in Rome che cantano The Promise già nel primo episodio (e lasciano di stucco), fino ad arrivare a On the Radio di Chip Taylor alla fine, passando per Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, Mystery of Love di Sufjan Stevens, Seventeen di Sharon Van Etten.

Un oscillare, un compenetrarsi continuo di sessualità spinta ed emotività, commedia adolescenziale (come tante se ne sono viste negli anni, soprattutto dal punto di vista maschile e maschilista ora sovvertito in nome di una pluralità, plurisessualità gioiosa quando non è proprio femminilità) e dramma; istintualità e precetto etico, progressista; che è sintetizzato proprio dal pastiche della recita finale, una messa in scena freak, tenera e pornografica, sghemba e sovraccarica, di Romeo e Giulietta che non può che gettare ancora luce sulla distanza reiterata tra i due innamorati adolescenti.