Noi non possiamo nutrire nessuna fede individuale nella nostra esistenza. È addirittura più facile credere in Dio che in noi stessi. Basandoci esclusivamente sulla nostra memoria e sulle nostre percezioni, tutti i fondamenti finiscono per vacillare. Va bene, se tocchiamo il manico di una pentola sul fuoco sentiamo che brucia, tiriamo indietro la mano, imprechiamo. Ci sono corpi che ci eccitano e altri che ci suscitano repulsione. Abbiamo dei gusti in fatto di libri o di vestiti, certe musiche ci commuovono, siamo golosi di certi cibi. Ma insomma, lo sappiamo bene, è troppo poco. L’identità è paglia secca, pulviscolo. Ogni mattina, potremmo svegliarci in un mondo esattamente identico a quello che abbiamo lasciato chiudendo gli occhi, ma dove nessuno si accorge di noi, perché siamo diventati muti e invisibili. Saremmo stupiti e angosciati, non c’è dubbio. Ma in fondo in fondo, dovremmo ammetterlo: lo sapevamo da sempre, era questa la verità – perché mai dovremmo esistere davvero? Questo dubbio, a considerare le cose con rigore, ci accompagna dalla nascita alla morte. Ma è altrettanto sicuro che nel corso della vita noi acquistiamo, in maniera discontinua ma non meno determinante, un certo peso specifico sull’unica bilancia in cui questo peso si rende misurabile. Che è quella che gli altri ci offrono, ovviamente. Noi la offriamo agli altri e gli altri la offrono a noi.

TANTO PIÙ una persona può considerarsi fortunata, quanto più ha trascorso la sua vita in questo scambio – con tutti i dolori e le delusioni che comporta, perché non c’è nulla di gratis in questo mondo. Ma attenzione: quando parliamo degli «altri» in senso benefico e positivo, cadiamo in un’approssimazione e in definitiva in una consolazione di poco conto. In genere, gli «altri» hanno un ruolo abbastanza secondario nella nostra vita interiore, che invece è plasmata in maniera straordinariamente potente e irreversibile da alcuni individui eccezionali, che il caso o la sorte ci permettono di incontrare. Sono individui dotati di una prerogativa, diciamo pure di un potere fuori dalla norma. E con questo vengo a Severino, perché Severino aveva sviluppato nel corso del tempo una capacità davvero inconsueta di percepire la realtà, la consistenza, la singolarità di chi si trovava di fronte.
Le sue indiscusse capacità professionali, che meritano discorsi tecnici adeguati alla complessità della materia, non possono essere resecate dal terreno vivo e fertile della personalità da cui sono spuntate. Da questo punto di vista, Severino assomiglia molto a un altro grande suscitatore di autenticità della cultura del Novecento: il paragone con Bobi Bazlen si impone spontaneamente, fatte salve tutte le differenze di carattere, di circostanze storiche, di orientamento estetico. In entrambi c’era qualcosa del maestro taoista, mescolato a un atteggiamento fondamentalmente maieutico e dunque socratico. E quando si evoca l’ombra di Socrate, necessariamente ci si deve riferire anche a un certo distacco – paradossale per letterati del calibro di Bazlen e Severino – dalla scrittura, intesa come via privilegiata dell’espressione di sé. Quando lo desideravano o ne avevano bisogno, scrivevano benissimo, ma non era quello il centro della loro personalità.

E DUNQUE, i libri degli altri: la traccia indelebile che i consigli, la complicità, la puntigliosa attenzione di Severino hanno impresso sui più delicati processi creativi è stata testimoniata da decine di scrittori. Il comun denominatore di questi ricordi è la sensazione che Severino, più che metterci del suo, spingeva le persone con cui lavorava al limite massimo delle possibilità, ridefinendo limiti troppo spesso dati per scontati. Lo soccorreva, indubbiamente, una memoria prodigiosa, capace di individuare la più lieve contraddizione o dissonanza in punti anche molto distanti di un testo.
La prima volta che ho lavorato con lui per un mio libro – I cani del nulla – era l’estate del 2002 e mi ricordo come fosse ieri dello stupore per il fatto che Severino, infallibilmente, ne sapeva molto più di me sul senso di ciò che nei mesi precedenti ero andato scrivendo, procedendo senza un piano prestabilito, con in testa le strisce di comics di tre/quattro vignette e i cartoni «casalinghi» tipo Tom & Jerry o Gatto Silvestro.
Quando siamo arrivati alla fine, una notte afosa di luglio, mi è venuta in mente l’immagine di qualcuno che ti aiuta a spingere una macchina in panne o a spostare un mobile troppo pesante. Tredici anni dopo, quando gli ho messo tra le mani la prima stesura del Popolo di legno, le condizioni di salute di Severino erano già talmente peggiorate che il suo intervento mi è sembrato un dono inestimabile. Il libro gli era piaciuto, ma c’era qualcosa, nelle prime pagine, che non lo convinceva. Si vede, mi aveva scritto in un sms, che non sei un narratore vero e proprio, e che non ti trovi a tuo agio con la terza persona come con la prima. Ma non c’era niente da togliere o da aggiungere: si trattava semmai di smontare e rimontare i primi segmenti narrativi come un gioco di costruzioni.

Con Rosella Postorino, che si prendeva cura del libro con tutta la sua generosità e la sua empatia, abbiamo messo in pratica i suggerimenti che Severino mandava da casa, e rimontando quelle prime venti pagine ci siamo resi conto – ancora una volta! – della sua prodigiosa intelligenza strutturale, del suo senso acutissimo di quella che si potrebbe definire la forma della trama (il «modello», lo chiamava E. M. Forster in quel sublime manuale di scrittura che è Aspetti del romanzo). Severino era uno di quegli uomini di cui davvero si può dire che, una volta fatti, si è buttato via lo stampo. Nel mondo non ci sarà più un tale concentrato esplosivo di lealtà e bizzarria e tenacia e cultura e senso del limite e grandezza d’animo davanti all’irreparabile. L’ho conosciuto quando ero ancora molto giovane, e il mio album di ricordi è gonfio come può essere solo quello delle persone a cui abbiamo voluto veramente bene. Tra le tante, innumerevoli cose che mi resteranno indelebilmente incise nel cuore, c’è un viaggio in treno, sul Frecciarossa da Torino a Roma, un pomeriggio di maggio del 2016. Severino aveva trovato la forza, tra un ciclo di chemio e l’altro, per partecipare a una celebrazione dei vent’anni di Stile Libero che si era tenuta al Salone del libro di Torino. Era molto stanco, quasi stremato, ma allegro e contento di passare le quattro ore del viaggio assieme a degli amici. Nel vagone semivuoto, ero seduto al suo fianco e di fronte a lui stava Concita De Gregorio, che tanto gli è stata vicina negli ultimi tempi. Era da molto che Severino non faceva un viaggio così lungo, e dal momento in cui il treno si mosse dalla Stazione di Porta Nuova a quando arrivò a Termini, dove lo aspettava sua moglie, si può dire che non staccò mai l’occhio dal finestrino.

E ANCHE NOI, come contagiati dalla direzione e dall’intensità del suo sguardo, fissavamo rapiti quel film monotono e meraviglioso, campi di grano con le spighe già alte, filari di pioppi, canali, svincoli di autostrade, capannoni industriali, ipermercati, e poi ancora piccoli agglomerati di case silenziose, stazioni di servizio, boschetti di faggi, cave di ghiaia, misteriosi cantieri abbandonati, immensi parcheggi deserti. Era uno di quei giorni prossimi all’estate in cui la luce, nel suo lento addolcirsi, suggerisce allo spirito che l’effimero e l’eterno sono l’uno la maschera e il simbolo ermetico dell’altro, e chi si trova su un treno, o su una macchina, può inebriarsi della sensazione di essere piombato nel centro di tutte le cose, in quella vera casa che si nasconde da qualche parte nell’aperto, le pareti di vento, le stanze dai soffitti di nuvole.
Non ricordo di che cosa abbiamo parlato mentre le ore scorrevano e il treno filava verso Roma. Ci saranno state pause di silenzio, cortesie reciproche, qualche transitorio momento di ansia e isolamento, perché gli esseri umani sono così, si adombrano per un nonnulla e poi tornano tranquilli alle loro faccende. Rivedo Severino che si abbevera alle apparenze che scorrono al di là del finestrino come un cammello che fa la scorta d’acqua.
E di tutte le cose – e sono tante – che nella vita ho imparato da lui, questo congedo dal mondo, così pieno di attenzione e tenerezza e curiosità, mi sembra la più preziosa, anche se non sono, e non sarò mai in grado, di stabilirne in modo razionale il significato. Quello che posso dire, è che Severino era un essere speciale. Chissà se siamo riusciti a rendergli almeno un po’ di quello che ci ha dato.

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SCHEDA: A Palazzo Merulana una serata per lui

Domani a Roma (ore 18.30, Palazzo Merulana) una serata in ricordo di Severino Cesari e la prima presentazione del libro «Maestro Severino. Quello che ci ha insegnato Cesari», edito da Belleville. Saranno presenti Paolo Repetti, Giacomo Papi, Giancarlo De Cataldo, Concita De Gregorio, Emanuele Bevilacqua e altri. Belleville Editore nasce dalla scuola di scrittura di Milano e propone volume sulla letteratura e la narrazione. Nel 2016 ha pubblicato l’inedito «Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere» di Giuseppe Pontiggia; un anno dopo, « Cento false partenze. Autobiografia per racconti», di Francis Scott Fitzgerald.