I protagonisti di Severance, ad oggi la migliore serie originale prodotta da Apple Tv+, sono i dipendenti della Lumon, una enigmatica e anonima corporation. Ogni mattina i dipendenti del reparto «data refinement», Mark (Adam Scott), Irving (John Turturro) e Dylan (Zach Cherry), prendono servizio entrando nello smisurato parcheggio e poi nel vasto edificio dell’azienda. Nell’ascensore che li porterà ai piani inferiori del mastodontico stabilimento subiscono una impercettibile ma radicale trasformazione. Quando le porte scorrevoli si aprono col caratteristico campanello, sono altre persone: non ricordano niente della loro vita personale o di chi siano fuori dall’ufficio. I lavoratori della Lumon infatti sono «recisi» (severed) e grazie ad un microchip impiantato dall’azienda, la loro identità personale è stata chirurgicamente separata da quella lavorativa.

ANCHE i loro ricordi sono stati biforcati e dentro i confini della loro azienda esistono come lavoratori «puri», senza nozione alcuna di una identità esterna al proprio mondo di corridoi irrorati di neon e cubicoli geometrici dove passano le proprie giornate fuori dal tempo. Sin dalle prime battute, le atmosfere magrittiane della sigla preannunciano un universo surrealista che risponde ad una rigida logica interna. La science fiction kafkiana creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller (alla seconda prova di tv d’autore dopo la bella Escape from Dannemora per la Showtime tre anni fa) è una metafora stilizzata e pacatamente inquietante sulla dissociazione. Gli impiegati «azzerati» ogni mattina compiono le loro kafkiane routine aziendali. A loro non è dato sapere cosa sia esattamente lo scopo delle ore passate dinnanzi agli schermi su cui devono ordinare sequenze di numeri secondo regole apparentemente arbitrarie ma che prevedono piccoli premi per gli impiegati più «produttivi», festeggiati con paradossali celebrazioni a base di piccoli buffet ed intermezzi musicali. La Lumon inoltre, nella quale si coltiva il culto del fondatore i cui ritratti che campeggiano ovunque e il cui pensiero è promosso dai manuali aziendali, rimanda a certa idolatria dei capitani di industria di era Steve Jobs o Elon Musk.

A turbare la ripetizione infinita della routine c’è l’improvvisa rimozione di un componente del team e la sua sostituzione con una nuova impiegata, Helly (Britt Lower). L’esordiente collega mostra subito poco entusiasmo nell’integrarsi ed è refrattaria ai tentativi di Mark di farla desistere dal dare le dimissioni. Una serie di episodi, compresi contatti non autorizzati col reparto «ottiche e design» della labirintica ditta, diretto da Burt (Christopher Walken), cominciano a provocare dubbi crescenti fra i componenti dell’equipe tra i quali si insinua sempre più forte anche la curiosità riguardo i propri alter ego non-lavorativi. Man mano che crescono i loro sospetti sui fini della corporation, aumenta la resistenza degli impiegati verso l’orwelliana azienda ed i suoi imperscrutabili quadri dirigenti, in particolare la ferrea capo reparto Harmony (un’ottima Patricia Arquette).

INTANTO anche l’alter ego di Mark che vive la propria vita parallela al di fuori dalle mura aziendali senza cognizione alcuna di ciò che vi avviene, inizia ad avere ripensamenti riguardo la procedura di scissione cui si è sottoposto, specie quando scopre l’esistenza di un movimento anti-severance in grado – forse – di invertire gli effetti del chip e ristabilire la sua identità completa. Da qui la trama si sviluppa in crescendo come un «thriller esistenziale».

La dissociazione che provano i personaggi di Severance è metafora calzante della disumanizzazione del lavoro, specie in ambito high tech e della gig economy. L’alienazione del posto di lavoro contemporaneo trova una rappresentazione plastica nella claustrofobia degli uffici Lumon, dove anche gli spazi pausa sono di un’angosciante e asettica razionalità. Mentre la sorridente correttezza aziendale nasconde la soffocante violenza del controllo industriale. L’organico del dipartimento raffinamento dati matura così una ribellione dapprima silenziosa poi una crescente insubordinazione malgrado il controllo della direttrice e degli addetti alla sicurezza e disciplina (comprese sedute di rieducazione eufemisticamente denominate di wellness).

NELL’ERA della lotta sindacale per Amazon, l’antagonismo dal basso contro l’anonima corporation non può che rammentare (ironicamente, vista la produzione Apple) anche analoghe dinamiche nascenti a Silicon Valley (come il primo sindacato di programmatori Google). E in un senso più lato la dilagante insofferenza verso lavori «automatizzati» espressa da fenomeni come la «great resignation». I lavoratori «puri» della Lumon sono un riflesso di quelli «essenziali» che abbiamo tutti da poco scoperto. E Severance una sorta di Tempi Moderni per la rivoluzione industriale di era informatica e l’alienazione che sta producendo.