Passato il weekend, gli ultimi sviluppi sulla minaccia nucleare nordcoreana sembrano lasciar intravedere una sembianza strategica attribuibile alla politica estera fumosa di Washington.

Se inizialmente la decisione improvvisa di bombardare la base siriana di Sharyat presa da Donald Trump in coincidenza col vertice sino-americano di Mar-a-Lago appariva come l’ennesimo «colpo di testa» del presidente statunitense, alla luce delle mosse e contromosse degli ultimi due giorni, c’è la tentazione di trovare un disegno coerente, un piano americano per sbloccare l’impasse internazionale con la Corea del Nord e, di riflesso, con la dirigenza di Pechino.

A seguito del rilancio della posta in gioco arrivato nella serata di sabato da Pyongyang, col ministero degli esteri nordcoreano che riaffermava la determinazione nel procedere col programma nucleare bellico nazionale in funzione deterrente delle potenziali ingerenze straniere, nella mattinata di domenica la Marina militare Usa ha ordinato alla portaerei USS Carl Vinson di fare rotta verso la penisola coreana.

Il cambio di rotta della Vinson, fino a quel momento attraccata al porto di Singapore in attesa di dirigersi verso l’Australia, rappresenta l’ultima mossa di Washington in una partita diplomatica delicatissima giocata con la Cina.

Le due potenze, uscite dal meeting in Florida senza alcun consenso su come procedere alla «gestione» di Kim Jong Un e delle sue intemperanze missilistiche, erano rimaste sulle proprie posizioni: Pechino, esortando le parti in causa alla riapertura del dialogo alla ricerca di una «soluzione politica», considerando l’Asia Orientale un territorio entro il quale le ingerenze a stelle e strisce non sono benvenute; Washington, di fronte al rifiuto di Pechino, intenzionata invece a «fare da sola» e in tempi brevi, registrando la progressiva urgenza di «controllare» Kim e assicurare protezione agli alleati storici dell’area, Seul – in questo momento senza governo e senza presidenza per via di una profonda crisi interna – e Giappone su tutti.

Aumentata ancora la tensione quadrilatelare dispiegando uno dei colossi della propria flotta militare, gli Stati Uniti di fatto hanno deciso di proseguire una guerra di nervi finora squisitamente mediatica, nel tentativo di chiudere in un angolo la diplomazia cinese e costringere Xi Jinping a prendere una posizione più netta.

Dato che, puntualmente, è arrivato nella giornata di ieri, a seguito di un colloquio tra il capo inviato per le questioni nucleari sudcoreane Kim Hong-kyun e il rappresentante speciale cinese per gli affari della penisola coreana Wu Dawei.

In un comunicato Seul ha fatto sapere che «Cina e Corea del Sud sono d’accordo nell’imporre nuove e più dure sanzioni se la Corea del Nord farà un nuovo test nucleare o di missili a lunga gittata». Sanzioni che, ha chiarito Kim durante una conferenza stampa, «saranno in accordo con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu».

La diplomazia cinese, in sostanza, sembra aver deciso provvisoriamente di spostare il proprio peso in linea con l’asse sanzionatoria di Seul-Washington, con la speranza di scongiurare un’escalation della tensione che né Kim Jong Un né Donald Trump pare abbiano intenzione di mitigare.

Nel febbraio del 2017 la Cina aveva già annunciato il blocco di tutte le importazioni di carbone provenienti dalla Corea del Nord, in accordo con la risoluzione dell’Onu di Novembre 2016. In quell’occasione, per la prima volta in assoluto, in Consiglio di sicurezza dell’Onu la Cina aveva votato a favore di sanzioni contro la Corea del Nord, tradizionalmente un paese «protetto» economicamente e diplomaticamente da Pechino.

Con la chiusura, sempre nel 2016, del polo industriale nordcoreano di Kaesong – posto al confine tra le due Coree e co-gestito da Pyongyang e Seul – la Cina si stima assorba il 90 per cento degli scambi commerciali nordcoreani.
La minaccia di nuove sanzioni concordate con Seul, in questo senso, dà la misura della frustrazione di Pechino, che in quanto stato confinante con la Corea del Nord è stata costretta da questa presunta «strategia» di Trump – identica, per ora, alle amministrazioni americane precedenti, da Bush jr. in avanti – ad agire in una situazione delicatissima: «punire» Pyongyang ma non troppo, evitando il rischio di destabilizzare completamente il regime nordcoreano, che aprirebbe nell’area scenari geopolitici imprevedibili e, di conseguenza, incontrollabili