Del tutto sbilanciata nel gioco degli equilibri tra i suoi due elementi costitutivi, la coppia formata da uno psicoanalista e dal suo paziente è tuttavia funzionale al processo di cura; ma se a un certo punto uno dei due soggetti vene a mancare? Cosa succede se il paziente di punto in bianco decide di uccidere il proprio analista durante una seduta e lo elimina dalla propria vita – dalla vita in generale – con un colpo di coltello ben assestato tra cuore e polmone? Ha inizio così, con tutta l’evidenza di una riproposizone dei classici giochi di ruolo, prima ancora che di un atto contro la legge, Viviane Élisabeth Fauville, romanzo di esordio di Julia Deck, uscito in Francia per le Éditions Minuit nel 2012 e proposto oggi in Italia da Adelphi nella traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco (pp. 130, euro 15,00).
Viviane Élisabeth Fauville è un libro costruito su una sparizione: prima ancora che di una presenza fisica, di una voce a alto contenuto evocativo, il dottor Jacques Sergent, figura autorevole-autoritaria perfino nel nome, «Sergente» appunto, ucciso un certo lunedì 16 novembre, come ammesso dalla sua stessa paziente Viviane Élisabeth Fauville, coniugata Hermant. Fin dalle prime pagine, il libro si mostra così nella cruda realtà di una sottrazione improvvisa. Eliminato quello che Lacan chiamava il «soggetto-supposto-sapere», della coppia rimane soltanto l’elemento debole, il soggetto-dichiarato-non sapere. Viviane, improvvisamente perso il contrappeso ai suoi affanni che la teneva in equilibrio, si ritrova ora faccia a terra, schiantata da quella sorta di guazzabuglio magmatico e incoerente che sembra essere il suo io.
Donna alto-borghese fornita di tutti i cliché del caso – ottima posizione manageriale in un’azienda di cementi, con una bambina nata da poco, sposata a un uomo tanto bello quanto narciso che ovviamente la tradisce appena può, nevrotica di lusso in cura da uno tra i più brillanti psicoanalisti di Parigi – si ritrova nei panni di un’assassina.

La sua instabilità psichica, prima tenuta sotto controllo a colpi di pillole bianche e blu, è ora libera di esprimersi nella propria grazia disarmonica.
Jacques Sergent morto, pillole sospese, adesso Viviane è sola di fronte a se stessa. Analista steso a terra, chiazza di sangue a macchiare il pavimento, Viviane-personaggio ha ora pieno campo libero, intere pagine di fronte a sé per fare esattamente tutto ciò che vuole. Se infatti l’analista è stato fatto fuori, anche l’autore Julia Deck (altra presenza forte, altro «soggetto-supposto-sapere» di una coppia altrettanto sbilanciata come quella composta dall’autore e dal suo personaggio) è apparentemente stata fatta fuori dalla protagonista del suo libro.

Sembra esserci uno spazio ridotto al minimo, in questo romanzo, per un narratore onnisciente, non sembra esistere respiro per alcuna voce esterna che sappia, veda, descriva la «verità» dei fatti. Capitolo per capitolo, l’io narrante, l’io di Viviane, scivola in un continuo slittamento di senso, in un inarrestabile trascolorare di voci pronominali che con ogni evidenza sono la rifrazione di un’unica mente scissa. Viviane parla in prima persona singolare, ma anche in seconda e in prima persona plurale. Si dà ora del noi, ora del tu, ora del vous (corrispondente del lei italiano) che altro non è che il vous dell’analisi, la distanza sintattica tra analista e paziente e di cui adesso Viviane si è appropriata, sdoppiandosi, diventando medico e «sergente» di se stessa (doveroso segnalare il virtuosismo stilistico del lavoro di traduzione che è riuscito magistralmente a rendere in italiano tutta la bellezza ambigua del testo).
Viviane Élisabeth Fauville, in sintesi è lo svolgersi, pagina dopo pagina, del discorso di una personalità nevrotica, o meglio di una personalità nevrotica costruita sopra evidenti nuclei psicotici, dal momento che lo sdoppiamento delle voci, la presenza di apparizioni fantasmatiche (una su tutti la madre, morta anni prima) aprono ben presto il testo sull’abisso della follia clinica vera e propria.

Viviane si muove cercando di mettere insieme i pezzi di un io completamente scisso. Il suo linguaggio scomposto è un linguaggio fatto di voci plurime. Le voci plurime cercano di cancellare le prove, si fanno interrogare dalla polizia, odiano il loro analista e il suo ricordo, pedinano gli altri sospettati, tendono trappole e poi vanno a fare la spesa al Monoprix come se nulla fosse.
Le voci spesso discordano tra loro sulla considerazione dei piccoli particolari, sull’orario di certi avvenimenti, sulla posizione di certi oggetti. Nella loro pluralità, le voci non ce la fanno a reggere il peso del delitto e alla fine crollano, dichiarandosi vinte, facendosi rinchiudere nel reparto psichiatrico dell’ospedale accanto al Palazzo di Giustizia e sedate di nuovo a forza di pillole e iniezioni.
Intorno a queste voci e al loro continuo liquefarsi l’una nell’altra, una Parigi al contrario maniacalmente definita nell’esattezza della sua realtà geografica, nel computo delle fermate del metro, nel percorso degli autobus, nel susseguirsi e incrociarsi delle strade, sempre enunciato, sempre preciso al millimetro. Se da una parte Mme Fauville (ancora una volta un «nome parlante», composto da faux-falso e ville-città) scivola, si perde nei meandri instabili e continuamente mutevoli della propria cittadella identitaria, dall’altra la «città vera», Parigi, è un luogo reale, tangibile, fatto di elenchi di piazze e boulevards, di negozi, di palazzi, di appartamenti, di oggetti.
Il linguaggio di Julia Deck è di una precisione descrittiva, di un’esattezza gelida che rimanda alla puntualità di un catalogo tecnico. I mobili della cucina di Viviane, l’arma del delitto («un coltello Zwilling J.A. Henckels, collezione Twin Profection, modello Santoku»), la poltrona su cui siede l’analista, sono perfetti, limpidi oggetti che emergono dalla pagina nella loro esattezza senza ombre, nelle prepotenza della propria evidenza materica. Nessun problema li riguarda. Gli oggetti, la città di Parigi conoscono un ordine rigoroso, una collocazione, una propria «verità», al contrario di Viviane che di questa verità non sa che fare, anzi che questa verità la teme, così come ha paura delle piastrelle bianche della fermata del metro République.

Piastrelle improvvisamente giganti, mostruose, così grandi da confondere del tutto il suo campo visivo, da mangiarle gli occhi. Il problema sta dunque tutto nella sua posizione di soggetto cieco, così cieco da non riuscire a tenere sotto controllo visivo la realtà che la circonda. Il problema sta nel suo essere soggetto-dichiarato-non sapere, un soggetto dallo sguardo straniato, così straniato e ritorto sul mondo da conferire a chi sembra rivendicarne un qualche possesso una grandezza e una profondità via via sempre più evidenti. Al paragone di questa protagonista tanto straniata, tutti gli altri personaggi appaiono del tutto scialbi e senza spessore. L’io di lei è così contorto da riuscire a ingannare tutti gli altri che le stanno intorno, mettendoli in trappa tutti, compresa la polizia. E, alla fin fine ingannerà persino il lettore.