«La storia poteva pure scansarla, girarle attorno, ma poi c’era la natura, un’astrazione, l’anarchia dei colori iridescenti, quegli odori». Gli odori sono quelli del Connemara, nell’Irlanda occidentale, e l’olfatto è quello di Ludwig Wittgenstein, che nel paese di Joyce trascorse alcuni periodi della sua vita. L’Irlanda fece parte del suo mondo di parole e di sensazioni. Un mondo limitato e delimitato dal linguaggio, come scrive il filosofo stesso nel Tractatus. Ma anche un mondo potenzialmente infinito, proprio come il linguaggio.

Ne Il manuale dell’eremita (Edizioni dell’asino, pp. 228, euro 14) Vittorio Giacopini ripropone squarci aperti nell’universo illimitabile di Wittgenstein, nei sonniloqui di Heidegger, nelle fughe dalla realtà e dal mondo stesso di Bob Dylan, di Buñuel, di John Coltrane; o nell’ascetismo esilico di Joyce incarnato nelle sue molto poco vacanziere esperienze romane.

IL LIBRO ESCE A UN ANNO dall’altro, Roma, in cui l’autore di Cagliostro e de La mappa (finalista al Campiello nel 2015) aveva ricostruito il mosaico disperato di una capitale alla deriva, chetata da acquorei piani, e sepolta sotto la liquidità del suo stesso presente.

In questa raccolta di racconti-schizzi-bozzetti dedicati ad alcuni grandi artisti e filosofi, Giacopini recupera di Roma non tanto la vis polemica, ma tutto l’afflato caleidoscopico, la tensione verso la spiegazione del non detto, del silenzio, attraverso le forze oscure della parola.

Un filo conduttore tra i sette contributi, che elaborano alcuni scritti già usciti, ma in forma diversa, è la propensione alla fuga. Una fuga dall’esistente, come nel caso dell’eremitaggio monco di un Simon del deserto il quale si ritrova a New York di fronte alla sfida di andare oltre, di andare ultra. Ed è questo, poi, anche un rifuggire dall’esistente, dal noto, per ritrovarsi, direbbe Dylan, in una Desolation row in cui si può sempre scorgere un Einstein camuffato da Robin Hood, con «i ricordi nel bagagliaio», intento a suonare il violino elettrico.

MA FUGGIRE A VOLTE significa anche ritrovarsi, come suggerisce una delle citazioni dal libro forse più amato da Giacopini, l’Ulisse di Joyce: «camminiamo attraverso noi stessi incontrando ladri, fantasmi, giganti, vecchi, giovani mogli, vedove, fratellastri in amore. Ma sempre incontrando noi stessi». È questo quel che capita anche al dublinese catapultato in una Roma ostica, non tanto traviata quanto oziosa, ottusa, piena di sé. E il racconto di Giacopini dei sette mesi e sette giorni che Joyce trascorse nella capitale italiana tra il 1906 e il 1907, coglie appieno il senso di quei suoi giorni bui, apparentemente improduttivi ma importantissimi.

Altre fughe, di cui pure Joyce fu magistrale ritrattista, sono quelle nel sonno, un sonno di morte direbbe Shakespeare. Ma anche il sonno della parola del grande filosofo tedesco Martin Heidegger, i cui rumori, le cui voci notturne sono idealmente registrate durante il famoso ritiro di Le Thor in Valchiusa alla fine degli anni Sessanta. La fantomatica trascrizione ci parla di un «vivere inghiottiti nella “notte del mondo”, senza più dei. Notte dai mille volti, e mille maschere. Anche recenti. La notte pop degli anni sessanta, la psichedelica notte degli anni sessanta e, alle spalle, improvviso il Novecento». L’inconsapevole eloquio notturno dell’autore di Essere e tempo finisce così in sfiducia, nel dubbio più oscuro, quello delle domande senza risposta che sono sotto sotto esse stesse risposte senza domanda: «se persino il domandare intorno all’essere fosse un errore?».

SGUSCIARE VIA dal visibile è spesso l’obiettivo delle filosofie come anche delle religioni, mentre quello delle letterature appare più il gioco del nascondimento, del celare qualcosa che può o non può essere rinvenuto, per via dell’ineluttabile imponderabilità del nero-su-bianco nel voler esprimere il pensato, il percepito.

L’immagine dell’opera aperta di Eco, pure rievocata nel libro di Giacopini, prende sì forma, ma dissipandosi, scemando fino a divenire l’essenza del letterario, uno spirito che non vive o non vive più nella sola parola, ma permane nella sua assenza.

LO SCRITTORE ROMANO, con le sue elucubrazioni sulla vita inevitabilmente eremitica dell’arte e del pensiero, ci consegna con questo libro snello un universo segnato dal dubitare attorno alla possibilità stessa di concepire l’esistente se non nella sua dimensione di fuga, di anelito verso l’altrove. Perché la crisi della parola rappresentativa è in fin dei conti data proprio dall’impossibilità di interpretare il silenzio. L’assenza dei suoni significativi è infatti anche la loro essenza ultima, un’essenza che si spegne come una vita che va a dormire, come un linguaggio opaco a cui rimboccare le coperte.