L’acqua non è solo madre ma anche matrigna: è la metafora profonda che dovrebbe accompagnare ogni ambientalista che si rispetti. E’ forse il merito più grande di un volume che racconta le storie di un territorio interno come gli Appennini attraverso il percorso che l’acqua dei fiumi fa con le sue emozioni e la sua cultura (qui si allarga il gioco ad altre acque e altre latitudini, di mari e di laghi, ma è un limite di questo libro).
«Le vie dell’acqua – L’Appennino raccontato attraverso i fiumi» (Donzelli editore, pagine 200, euro 17) è un testo intrigante di racconti di sette scrittori (Laura Bosio, Guido Conti, Donatella Di Pietrantonio, Carlo Grande, Giuseppe Lupo, Raffaele Nigro, Laura Pariani) curato dalla Fondazione Appennino. E si sa che lo scorrere dell’acqua dei fiumi accompagna come nessun altro la storia e la vita di ognuno. Fiumi (e acque in genere) che diventano leggenda e, appunto, persino metafora.

Inizia Laura Bosio con un interessante intreccio tra acqua (del mare, in questo caso) e nuovi orizzonti soprattutto di trasformazione umana nel rapporto con i nuovi migranti. E Carlo Grande mette subito il dito nella piaga della realtà: «Il fiume può diventare improvvisamente torbido e inaffidabile, come la vita, suggerisce Conrad descrivendo il soldato Kurtz. I fiumi non sono sempre quieti come quelli di Balzac (la Loira), sulle cui rive dormono le modelle degli impressionisti». Guido Conti ci dà, con il suo dizionario del Po, un viaggio dentro il grande invaso padano: «Le acque del fiume, le diverse correnti sono il fiume: ogni volta cambiano luce e colore, con i giorni, con le stagioni, con le ore del giorno… E’ uno sbaglio parlare di acqua, bisogna parlare delle acque del fiume per capirne le diverse anime». Dunque l’acqua ha un’anima come la nebbia un odore secondo Mario Rigoni Stern. E, a proposito del Ticino, scrive Laura Pariani: «Più avanti negli anni ho amato molto la solitudine di alcuni tratti delle sue rive, di cui ho conosciuto ogni voce: il chiacchiericcio dei ciottoli, la nota gorgogliante dei vortici d’acqua che all’imprevista ribollono rompendo la superficie un attimo prima piuttosto calma, il fragore delle rapide basse e veloci, le risate delle onde sul fondo delle barche». Raffaele Nigro, nel suo peregrinare lucano-pugliese, attraverso Ofanto, Basento e altri fiumi, con voli fantastici e letterari in Orazio e nel Roth della «Cripta dei Cappuccini», approda al Giuseppe Ungaretti del «Porto sepolto»: «Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato…/ L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso».

Altri voli li fa il lucano-milanese Giuseppe Lupo con una riflessione ben piantata sull’oggi: «Da Milano, dall’Europa si può vedere un altro Mezzogiorno…che non ha parentele con il nostalgico, con l’elegiaco, soprattutto non ha alcun legame con il tempo della breve quotidianità ridotta a cronaca minima». Infine l’abruzzese Donatella Di Pietrantonio ci regala un racconto intimo dell’acqua che la riporta lontano: “Il fiume della mia infanzia dava acqua, vita per i nostri campi, non gli abbiamo mai chiesto anche il dono del cibo, quello ce lo dovevamo sudare sui terreni erti dell’Appennino… E’ di mia madre, la nostalgia. Di quando lei era giovane e in salute, io ragazza, e non ci capivamo. E adesso che abbiamo ognuna abbastanza anni per pensare alla nostra storia, lei non può parlarmi e se lo faccio io, niente le arriva del mio monologo. Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”. Anche perché la vita dei fiumi, al pari di quella di molte persone, è cambiata spesso in peggio: depredati e umiliati con un inquinamento e sfruttamento a volte davvero criminale.

Un libro che ha l’ambizione, forse sviluppata solo in nuce ora ma con buoni propositi per il futuro, di percorrere assieme all’acqua zone «interne» e magari impervie per arrivare al mare e consegnargli umori, asprezze ma anche antiche saggezze quanto mai indispensabili in questa epoca di smarrimento.