La mia vita è stata salvata dal rock», dice Wim Wenders parafrasando un verso dei Velvet Underground. E probabilmente sono d’accordo anche due adolescenti di Fuorigrotta, nei primi anni settanta, che hanno trovato in quella musica un senso d’identità, una gioia da condividere, una passione profonda. Antonio Tricomi e Giorgio Verdelli, oggi giornalisti di vaglia, sono stati «miracolati» dalle sette note, dalla voglia di capire e cambiare il mondo filtrata attraverso i padelloni di vinile nero, gli album da cercare in modo un po’ carbonaro, le strofe e i refrain dei successi dei «cugini» anglosassoni.

Da quelle loro esperienze, guardate con la lente della memoria e della curiosa rievocazione, è nato A noi ci piaceva il blues (sottotitolo ovvero tutte le strade portano a Memphis, Bagaria edizioni, con tantissime foto inedite di Teta Pitteri), un volumetto che racconta una vera educazione sentimentale insieme con le trasformazioni di una metropoli, Napoli, sospesa tra passato ingombrante e dimensione internazionale. L’avvenimento acceleratore è stato la scomparsa di Pino Daniele, forse la chiusura di una stagione straordinaria iniziata almeno trent’anni fa, il segnale che quella creatività trasversale che aveva intercettato la scena napoletana negli anni settanta si era ormai avviata su altri binari, in altre forme, con linguaggi crossmediali.

Il libro è particolarmente affettuoso e vicino a quella generazione nata negli anni ’50, bambini nei ’60 e ragazzi nei ’70, passando dalle citazioni del Mak P 100, l’unico avvenimento musicale organizzato dai liceali del quinto anno (con scelte di artisti tradizionali e non, chi scrive ricorda una serata progressive-stroboscopica al Mondial Payper’s Club di via Terracina, con i Campanino e Peppino di Capri) a quella dei negozi di dischi da setacciare accuratamente (quello di Gianni Cesarini al Vomero o il «negozio» di Lignelli a Forcella che aveva dischi d’importazione, tra gli altri, su etichette Charisma e Vertigo) fino agli inevitabili locali notturni (dal Playstudio di via Martucci di De Gregori e Venditti al City Hall Cafè, con Chet Baker e Dizzy Gillespie). Quella periferia dell’impero riprese a dondolare a ritmo di Vesuwave, mischiando Shawn Philips e Polyrock, il noto sound del mediterraneo di Raffaele Cascone con la psichedelica spaziale dei Pink Floyd a Pompei e il crocodile rock di Elton John (al quale fregarono la valigetta con gli occhiali, durante il concerto al Palasport).

In questo viaggio nel tempo, dove i resoconti autentici della visita di Warhol e Beuys si mischiano ai concerti di Lou Reed e Rolling Stones con personaggi inventati (Bob Gargiulo, Grimaldi, gli amici del bar Galano) per comodità di scrittura, i due autori si sono fatti aiutare da un manipolo di amici, tutti protagonisti di quell’epoca, così Enzo Decaro racconta il momento degli anni di piombo col terrorismo dilagante in cui la Smorfia provava in un centro culturale a San Giorgio a Cremano, mentre Lanzetta declama una sorta di ode ad Alvin Lee per il Marechiaro Blues Festival e Avitabile ricorda appunto quel duetto. Patrizio Trampetti racconta la genesi di Un giorno credi e il regista Francesco Patierno i suoi ricordi da teenager. Ma ognuno, da Claudio Velardi a Sandro Ruotolo, da Lino Vairetti a Daniele Sanzone, racconta il suo pezzo di verità, l’emozionante incontro con la musica del Naples Power, di Miles Davis e Frank Zappa, di quel periodo energico e vibrante del 41/mo parallelo, quello che hanno in comune New York e la capitale del mezzogiorno.