LUNEDÌ. Interno giorno. La mattina di non ricordo quale numero di giorno di quarantena, preferisco non tenere il conto, telefono per disdire la mammografia. La segretaria lo considera sensato. «A quando spostiamo l’appuntamento?». «Ci richiami lei più avanti». Traduzione: a data da destinarsi. Nessuno sa niente, figurati la povera infermiera che risponde dal centro mammografico.
Alcune ore della mattina si tenta di fare scuola online, per non intromettermi, abbandono i guai al padre. Propongo di vedere un film ma i due maschi con cui vivo contestano le mie proposte. Allora faccio una crostata incazzata con la pasta frolla avanzata.
Interno sera. Montalbano risolve tutto. Se non è cinema è tv.

MARTEDÌ. Esterno giorno. Esco da sola con mascherina fai da te fatta di carta forno biologica. Faccio la spesa al bio, dopo la fila, spendo uno stonfo pur di rendere felici i palati di casa. Il padre va allo studio. Restiamo soli io e il figlio.

Interno giorno. Ciambellone d’amore anche se alla fine scopriamo di non avere le uova ma viene buono lo stesso.

Interno sera. Super chiamata Skype di compleanno per l’amica cara che sta da sola a casa a compiere gli anni. Un po’ i primi minuti mi viene da piangere, siamo in tantissimi, più di venti, nel mio iPad ne vedo solo quattro, raramente la festeggiata, quindi taccio e ascolto, guardo chi brinda, chi suona, chi balla, controllo il mio quadratino laterale e mi piace la luce come cade sul mio viso stanco e non truccato. Altro che follia e drink e bolle di sapone nella piscina interna della maestosa villa di Hollywood party (Blake Edwards, 1968).

MERCOLEDÌ. Interno giorno. Tentativi di scuola online riusciti: io scrivo un po’.
Su sollecitazione di amiche giro con mio figlio un tutorial per fare un pane senza lievito, in vero è un remake di uno visto il giorno prima. Se la quarantena si fa lunga diventerò come la casalinga annoiata di Julie & Julia (Nora Ephron, 2009): una food blogger di grande successo (come dice un’amica: «Questo è il tuo punto di non ritorno»).

Interno sera. Mi chiama l’ex che passeggia sotto casa col cane che ha portato giù la fidanzata che si è trasferita dal nord. Penso: è il loro bambino. Tanto manco con me li ha fatti i bambini. Gli ribadisco che quando passerà questo periodo assurdo vorrei rivedere suo padre, che non vedo quasi da vent’anni. «Come vent’anni?». «Forse l’avrò incrociato per caso per strada un paio di volte salutandoci da lontano… ma sono più di vent’anni che ci siamo lasciati, non te lo ricordi?». Gli hanno cancellato la memoria di noi come in Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004)?

GIOVEDÌ. Interno giorno. Telefonata con la psic dal terrazzo sotto il sole. Perplessità della dinamica. Le dico che voglio smettere. Vado in paranoia di essere ascoltata dai terrazzi vicini o dalle finestre aperte o dalla strada sotto come in Un’altra donna di Woody Allen (1988).
All’ora di pranzo sclero della prof a distanza. I genitori ridono, per non piangere. Gli alunni se ne fregano. Ma la situazione va risolta perché è chiaro che la scuola non riaprirà. Il terrazzino è la mia salvezza: mi nascondo dentro il sole dietro il libro e mi carico di vitamina D.
Il dentifricio speciale per denti sensibili ordinato online non è arrivato ma qualcuno ha lasciato il bigliettino (senza suonare).
Interno sera. Scatta una corsetta-circuito a casa con riprese paterne. Ridiamo da pazzi. Lo postiamo e riceve commenti comici: abbiamo regalato allegria. La giornata è fatta!

VENERDÌ. Esterno giorno. Alla ricerca di una posta aperta. Faccio chilometri giustificandomi coi carabinieri. Finalmente arrivo all’unico ufficio aperto. Fila di almeno mezz’ora. Pago bollette scadute. Chiedo info sul dentifricio. Bisogna aspettare. Poco dopo da casa mi chiamano: è arrivato. Visto che sono da quelle parti faccio un passaggio veloce ad abbracciare mio padre: con mascherina, ovvio.

Interno sera. Ballare ballare ballare. Giungo alla conclusione che sia l’unica cosa saggia da fare per non sclerare. Scatenando una rivoluzione come in Footloose (Herbert Ross, 1984). Oppure per stremarsi fino a morire, anzi proprio per non morire. Non si uccidono cosi anche i cavalli (Sidney Pollack, 1969).

SABATO. Interno giorno. Mentre cucino un minestrone tagliando tutte le verdure a pezzi piccoli (c’è un tempo per una dedizione del genere) mi telefona un’amica che sento raramente. Chiacchieriamo amabilmente facendo battute ironiche (l’ultima volta che ci siamo incontrate lei aveva subito avances dal tipo che le doveva fare l’ecografia mammaria: ecco, vedi, allora meglio che non l’ho fatta!). Capisco che si sente sola, tutti ci sentiamo soli, anche se si è in tre. Penso alle telefonate in cerca di conforto verbale di Frances Ha (Noah Baumbach, 2012).

Interno giorno. Emergenza mia madre che si sente debole e ha pressione bassissima e battiti altissimi. Capisco che fibrilla, è la sua patologia ma era da tanto che non accadeva e lei si spaventa. Cerco il cardiologo, non risponde, non guarda i miei molteplici whatsapp. Dopo un paio d’ore lo richiamo, lui risponde con tono distante fornisce un farmaco in più rispetto alla terapia attuale. Per telefono spiego tutto a mia madre e alla badante che non parla italiano e un inglese confuso (mezzo sbrocco mixando malissimo entrambe le lingue). La situazione si stabilizza. Riesco a non andare da lei. Resisto ma non è facile. Più forte il pensiero di rischiare di contagiarla.

Interno notte. Prendo parecchie gocce per dormire.

DOMENICA. Esterno giorno. Salta la proiezione del mio documentario a Firenze. Manco hanno chiamato per dirlo ma, insomma, era evidente. La mattina faccio una scappata da mamma per vedere come va. La città per la prima volta mi appare fantasmatica. Al ritorno camminiamo in tre in tutto il lungotevere e il ponte. Una bionda che corre, magra magra vestita di tessuto sintetico nero, allenta il passo e un tipo tarchiato che cammina sull’altra sponda del ponte, la mia, vedo che la punta. Infatti attraversa. Lei si accorge e allunga il passo. Ho le cuffie e canticchio Gianna di Rino Gaetano. Controllo l’evoluzione della faccenda. In giro non c’è proprio nessuno. Ma lei è furba, si è mezzo nascosta dietro il baracchino chiuso delle grattachecche, lui non se n’è accorto ed ha attraversato la strada. Un inseguimento degno de Il braccio violento della legge (William Friedkin, 1971). Passo in farmacia dove mi hanno riservato due mascherine che acquisto a caro prezzo ma mi rassicurano, non si sa di che.

Interno giorno. All’ora di pranzo ennesima crisetta di mamma a distanza con mezzo svenimento. È domenica all’ora di pranzo: chiamo il cardiologo, risponde, non gli chiedo nemmeno se disturbo, vado a bomba al punto, sento indietro una voce giovane che dice «papà», mi fa qualche domanda e poi aggiunge ancora una pasticca di quelle che già prende mia madre. Gli sono di una gratitudine infinita. Alle cinque i battiti sono ragionevoli. Mamma si sente meglio. Non sono riuscita a fare nulla nel frattempo, manco parlare, solo guardare il cielo e attendere: forse la chiave di tutta questa nostra giostra quotidiana chissà fino a quando.

Interno notte. Fino a che le gocce non fanno effetto guardo il soffitto, conto le travi, altro che pecore.